Si chiama Ticino 2020, ma quando vedrà la luce? Ne parliamo con il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi
Ticino 2020, un nome, un programma avviato nel 2016. Peccato che siamo alle porte del 2022. In questo contesto non resta che chiedersi: che senso ha? Norman Gobbi, se lo chiede anche lei?
«Come ho già avuto modo di dire qualche tempo fa in Parlamento non commetterò più l’errore di inserire l’obiettivo temporale nel nome di un progetto. Soprattutto quando questo comporta cambiamenti significativi e culturali che impongono alle persone coinvolte di uscire dalle proprie zone di confort. Detto questo, l’opportunità di portare avanti la riforma Ticino 2020 è ancorata all’essenza stessa del nostro sistema federale e non ha alcuna data di scadenza».
L’obiettivo di fondo rimane dare maggiore autonomia politica e amministrativa ai Comuni, anche alla luce delle aggregazioni. L’impressione è che con il passare degli anni il progetto si è fatto meno ambizioso. Perché si tirano un po’ i remi in barca?
«Per mia natura cerco di trarre insegnamenti dalle esperienze. In questo caso abbiamo maturato la consapevolezza che salvaguardare l’autonomia comunale per i compiti di prossimità è e rimarrà sempre un obiettivo di fondo. Non si tratta di un obiettivo fine a sé stesso, ma è strettamente legato alla natura dei compiti. Mi spiego meglio: i compiti che negli anni ’60 erano di valenza comunale oggi sono di competenza cantonale, se non addirittura federale. Basti pensare alla protezione del minore e dell’adulto. Un compito di origine comunale, che oggi – la notizia e della scorsa settimana con la presentazione della riforma dell’Autorità di protezione – stiamo cantonalizzando in accordo con i Comuni per rispettare una legge federale sempre più esigente. Inoltre, non dimentichiamo che la pandemia ha creato un nuovo ostacolo. Non mi riferisco tanto alle difficoltà logistiche per organizzare le riunioni dei gruppi di lavoro che hanno un impatto sulla tempistica, ma alle conseguenze finanziarie per il Cantone. La regola dell’equilibrio dei conti cantonali impone infatti un’ulteriore riflessione».
Da sempre vale il detto: chi comanda paga e chi paga comanda. Anche in futuro sull’asse Cantone-Comuni sarà così?
«Il principio di equivalenza, a cui fa riferimento, è un principio sacrosanto se si vuole che le scelte politiche siano responsabili e commisurate alle risorse disponibili, qualsiasi sia il livello di governo interessato. Negli ultimi anni ho voluto instaurare un dialogo franco e diretto con i Comuni. Per questo motivo regolarmente organizzo degli incontri con i Municipi duranti i quali abbiamo la possibilità di discutere in maniera trasparente e informale dei cantieri portati avanti dal mio Dipartimento. Considero questi momenti un privilegio che mi permette di toccare con mano quali sono i sentimenti e le valutazioni degli enti locali. Nel 2019, infatti, uno dei temi che ho voluto approfondire era quello delle competenze in ambito di sicurezza e si è delineata una chiara volontà dei Comuni a voler assumere quei compiti di prossimità in ambito di polizia che nel corso invece delle discussioni sul progetto di polizia unica erano state contestate».
Pare di poter sostenere che l’idea di partenza era davvero esagerata. Forse semplicemente perché la politica e l’amministrazione tendono ad accentrare i compiti e le responsabilità più che a delegare a terzi. Condivide?
«Più che esagerata la definirei ambiziosa, anche e soprattutto per la natura dei compiti pensati in questa prima fase del progetto. Non dobbiamo dimenticare che ciò che Ticino 2020 vuol cambiare è il frutto di sessant’anni di politica cantonale, durante i quali, da un lato, i Comuni hanno spesso chiesto al Cantone di farsi carico di compiti che essi non erano in grado di assolvere e, dall’altro, il Parlamento ha deciso di assicurare su tutto il territorio le medesime prestazioni, al di là dalle preferenze locali. È anche vero che soprattutto durante la gestione delle fasi iniziali della pandemia il Comune ha assunto il compito di prossimità facendosi promotore di iniziative a favore dei cittadini che prima non voleva o non poteva assumersi. Sono fermamente convinto che nonostante le difficoltà le nostre realtà comunali abbiano riscoperto la loro vera essenza e questo mi infonde un certo ottimismo per lo sviluppo futuro del nostro Cantone».
Qual è la sollecitazione giunta dai Comuni che ritiene più pertinente e che ritiene imprescindibile del progetto?
«Personalmente, sento di condividere appieno la richiesta dei Comuni di avere, per i compiti di responsabilità politica condivisa con il Cantone, un potere decisionale commisurato al contributo finanziario da loro versato».
E qual è l’elemento che assolutamente non ritiene di avallare e che verrà rinviato al mittente?
«Su questo fronte ritengo di non aver nulla da rimproverare ai Comuni. Al contrario, mi sento invece di muovere una critica – e il mio intento è quello di essere evidentemente costruttivo – al Cantone. L’ho già ricordato nel corso del dibattito sul Consuntivo 2020 in Gran Consiglio: la resistenza maggiore al progetto è arrivata infatti dai servizi cantonali coinvolti. Lo dico con un certo rammarico, perché la paura di perdere una fetta di potere decisionale ha prevalso sull’opportunità di provare a costruire un nuovo assetto istituzionale del Ticino. È vero che non si può generalizzare: non tutti i servizi cantonali mettono dei freni, così come per taluni Comuni il cambiamento non s’ha da fare. Detto questo, non intendo far saltare il banco, ma porterò delle riflessioni a riguardo nelle future discussioni in Governo».
Il Dipartimento delle istituzioni viene considerato naturalmente come il fulcro del progetto. In realtà la responsabilità è del Governo. Questa condivisione funziona, oppure così si è finito per complicare un po’ tutto?
«In effetti è facile cadere in inganno perché quando si tratta di difendere il progetto – penso in particolar modo alle discussioni parlamentari – la faccia ce la mette il sottoscritto. Erroneamente agli occhi dell’opinione pubblica si attribuisce la paternità di Ticino 2020 al Dipartimento che dirigo, ma in realtà è del Consiglio di Stato. I temi trattati toccano, di fatto, tutti i Dipartimenti e ognuno è stato chiamato a dare il proprio contributo, sia nella ricerca delle soluzioni sia nella loro accettazione. Per quanto mi riguarda credo nella bontà e nei principi della riforma, che non fanno bene solamente al Cantone inteso come apparato statale, ma a tutta la popolazione, ai Comuni e a tutti gli enti locali e statali che operano sul nostro territorio. Perché alla resa dei conti quello che mi sta a cuore è il benessere del cittadino e ciò che voglio ottenere è una qualità di vita residenziale dei cittadini più elevata grazie all’erogazione di servizi e prestazioni più performanti».
Alla fine possiamo dire che con Ticino 2020 la montagna finirà per partorire un topolino?
«Non ho mai negato che Ticino2020 è un progetto sicuramente ambizioso. Al momento non è ancora possibile stabilirlo con certezza, ma forse non è tanto il topolino a dover essere messo in discussione, quanto la montagna, che durante la fase di avvio del progetto sembrava scalabile, ma che con il senno di poi possiamo affermare essersi rivelata di grado 7».
Quanto costerà al contribuente il tentativo di realizzare Ticino 2020?
«Attualmente sono stati spesi 2 dei 6 milioni preventivati che, tengo a ricordarlo, sono assunti pariteticamente da Cantone e Comuni. Dal profilo finanziario la conduzione del progetto si è dimostrata molto attenta, evitando costi inutili, pur fornendo tutte le risposte alle molte sollecitazioni e ai condizionamenti posti da entrambe le parti in corso d’opera. Il nostro Cantone sta affrontando un momento congiunturale non semplice causato dall’emergenza sanitaria e nonostante sia disposto a fare investimenti per il bene del nostro Ticino il progetto deve essere il più sostenibile possibile».
Intervista pubblicata nell’edizione di lunedì 27 dicembre 2021 del Corriere del Ticino