Dal Corriere del Ticino | L’inedita vicenda di un cittadino turco e uno afgano che vivevano in Ticino a contatto con ambienti radicalizzati Le loro frequentazioni dubbie e movimenti sospetti hanno portato i funzionari e la polizia alla drastica soluzione
Mentre in tutta Europa è allerta terrorismo, in Ticino sono stati espulsi un cittadino turco e uno afgano. Due persone ritenute pericolose, legate ad ambienti radicalizzati frequentati da soggetti molto vicini all’ideologia jihadista. Al centro dell’operazione c’è la Sezione della popolazione del Dipartimento delle istituzioni che ha collaborato sul caso con la Polizia cantonale, la Segreteria di Stato della migrazione e la polizia federale. L’inedita vicenda è stata condotta nel pieno della bufera sui permessi falsi, una vicenda scoppiata in febbraio con arresti, polemiche e inchieste, ma il tutto è avvenuto nel più stretto riserbo, senza che nulla trapelasse, per il rischio di fallimento. Il tutto è avvenuto anche grazie al lavoro d’intelligence e ha permesso di prendere conoscenza di situazioni che non erano note e comprovate.
Il cittadino turco, sulla quarantina, aveva uno statuto di rifugiato riconosciuto, ed era entrato nel nostro Paese all’inizio degli anni Duemila. Tra i motivi che hanno spinto le autorità ad allontanare l’uomo, all’inizio dell’anno, spiccano i presunti legami che avrebbe intrattenuto con ambienti islamisti radicali. È stato considerato una potenziale minaccia per il nostro Paese. Per contro il cittadino afgano, sulla trentina, era un richiedente l’asilo entrato in Svizzera nel 2015. Il suo allontanamento è più recente, è avvenuto nel corso dell’estate. Un altro individuo giudicato dai servizi specializzati un serio pericolo, visti i suoi contatti con altri individui radicalizzati. Entrambi sono stati allontanati e rimandati nel loro Paese d’origine con un biglietto di sola andata.
I due hanno richiamato l’attenzione delle autorità per le loro frequentazioni dubbie e i movimenti sospetti. Un sottobosco di radicalizzazione allo jihadismo che è emerso anche dal recente processo contro Ümit Y., l’agente di sicurezza che lavorava nei centri per richiedenti l’asilo per Argo 1, la società al centro della vicenda del mandato diretto del DSS. L’atto d’accusa a suo carico della Procura federale citava diverse situazioni di ritrovi sospetti, facendo anche nome e cognome delle persone interessate. Rimane top secret la regione del Ticino che ha visto i due espulsi protagonisti, mentre gli stessi intrattenevano legami sia in Ticino, che in Italia, come pure in altri Paesi. Mentre i due non erano uniti da legami o rapporti, i filoni che hanno portato al successo di questa operazione erano separati.
NORMAN GOBBI – «La Svizzera è un luogo di reclutamento»
Ticino, radicalismo, terrorismo e sostenitori del sedicente Stato islamico. Dobbiamo iniziare ad avere paura?
«Quando sono state colpite da attentati terroristici città come Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra, Manchester e Barcellona – e negli ultimi due anni è successo purtroppo troppe volte – ho ricordato che alle nostre latitudini il rischio zero, ovvero la possibilità che anche da noi si verifichino attacchi simili, non esiste. Questi attacchi colpiscono laddove fa più male: nel cuore pulsante delle comunità, dove la gente sta vivendo la propria quotidianità. Ma, per tornare alla sua domanda, no, non dobbiamo iniziare ad avere paura, perché è proprio quello l’obiettivo finale di questi movimenti radicalizzati: insinuare la paura nella popolazione. Ricordo anche che la Svizzera non è un obiettivo primario di questi attacchi, tuttavia l’allerta rimane alta, perché la certezza assoluta purtroppo non esiste. Grazie all’ottima collaborazione tra autorità politiche e forze dell’ordine a livello nazionale e internazionale e allo scambio continuo di informazioni possiamo contrastare questo genere di situazioni».
Si parla spesso di casi isolati, ma poi ne emergono di nuovi. Fino ad oggi ci siamo illusi di essere un territorio immune?
«Dalle informazioni fornite dal Servizio delle attività informative della Confederazione il nostro Paese non si presta a essere uno degli obiettivi principali dei terroristi. Come dimostrano alcuni arresti avvenuti in passato – e nemmeno troppo lontano – la Svizzera è piuttosto un luogo in cui avviene il reclutamento per la diffusione di ideologie di questo genere e per il finanziamento di queste ignobili azioni. Anche in passato, per altri tipi di terrorismo il nostro territorio si prestava a questo genere di attività. E non da ultimo non va dimenticato che vicino a noi, al di là del confine, ci sono luoghi problematici. E penso in questo senso alla moschea di Varese dalla quale sono transitate persone pericolose».
Cosa si sente di dire dei due casi che arrivano alla ribalta oggi?
«Innanzitutto voglio esprimere il mio ringraziamento a tutti i miei collaboratori: funzionari e agenti di polizia che con pazienza e tenacia si sono occupati dei casi. Il lavoro che svolgono queste persone spesso è dietro le quinte, non si vede. Ma grazie al loro impegno, il nostro territorio rimane un posto sicuro dove vivere. E non da ultimo, tengo a ringraziare anche tutte le persone che lavorano per i servizi della Confederazione che hanno reso possibile ottenere un risultato di successo per entrambi i casi».
Molti si chiederanno: per due che sono stati allontanati, quanti altri jihadisti operano nell’ombra in Svizzera e in Ticino?
«Difficile da dire. Possono anche essere persone che transitano sul nostro territorio per un breve periodo. Per questo motivo è fondamentale che cittadini, enti e associazioni, insomma chiunque noti qualcosa di sospetto sul nostro territorio lo segnali alle nostre forze dell’ordine. In questo senso mi piacerebbe che le persone attive nelle nostre moschee fossero più attive nel segnalare personaggi sospetti. Quando a febbraio è stato arrestato il reclutatore sul nostro territorio grazie a un blitz delle forze dell’ordine la Lega dei musulmani ha negato di aver subito una perquisizione. Ma poi, durante il processo dell’imputato al Tribunale penale federale è emerso invece che la sede era stata perquisita. Su questo aspetto non smetterò mai di insistere: occorre trasparenza!».
La Sezione della popolazione con questa azione ha certamente fatto «un colpaccio». E dire che mentre si lavorava nell’ombra su questi delicati casi imperversava il cosiddetto scandalo dei permessi falsi. Come commenta?
«Ancora una volta il plauso va al lavoro di chi, anche quando si trovava nell’occhio del ciclone, non ha mai smesso di svolgere al meglio il proprio mandato. Persone che, mentre imperversava la tempesta, hanno lavorato anche durante i giorni di festa, in un clima caratterizzato da dubbi e attacchi da più fronti, soprattutto a livello mediatico».
Ma come si fa ad arrivare a smascherare queste persone?
«Spesso è un lavoro lungo. E la collaborazione tra autorità è fondamentale: prima di tutto tra servizi interni e poi con la Confederazione – penso il particolare alla Segreteria di Stato della migrazione, alla Polizia federale e al Servizio delle attività informative – e con le autorità internazionali. Lo scambio d’informazioni è quindi basilare. Un grosso contributo spesso lo danno anche le segnalazioni dei cittadini – che amo definire le nostre sentinelle sul territorio – e dei funzionari che si occupano delle pratiche. Ciò nonostante le grandi difficoltà date dagli strumenti legislativi che abbiamo a disposizione: risorse insufficienti per poter svolgere al meglio il nostro lavoro. A livello svizzero, ci stiamo muovendo tra Cantoni insieme al Dipartimento federale di giustizia e polizia per poter disporre di più mezzi per contrastare organizzazioni criminali e di stampo terroristico. Vogliamo modificare la base legale perché al momento, soprattutto il codice penale, è troppo debole. Pensiamo alla condanna del reclutatore arrestato qualche mese fa e recentemente condannato. Sei mesi per questo genere di reati sono davvero una pena troppo lieve a mio modo di vedere».
Abbiamo parlato dei suoi funzionari, ma che ruolo hanno avuto la Polizia cantonale e quella federale?
«Ovviamente, il ruolo della nostra Polizia è stato centrale. Il Servizio cantonale d’intelligence ha infatti lavorato in fase preventiva e ha evidenziato le due situazioni a rischio, per poi trasferire le informazioni e tutti gli elementi alla Polizia federale che, per competenza, ha avviato le indagini giudiziarie».
Nelle scorse settimane c’è stata la condanna di Ümit Y., già agente di sicurezza di Argo 1. Tra lui e i due espulsi c’erano dei legami di qualche genere?
«Non lo so dire. In casi come questi le inchieste sono condotte dagli inquirenti, e determinate informazioni sono strettamente confidenziali. D’altra parte nel nostro sistema democratico vige la separazione dei poteri. In ogni caso sono fiducioso sul lavoro svolto dalle nostre autorità giudiziarie in questo ambito».
(Articolo e intervista di Gianni Righinetti)