Dibattito a Lugano sulle minacce di stampo mafioso e terroristico – L’appello: serve ripensare le leggi svizzere.
Norman Gobbi: «Oltralpe a volte sono un po’ naif» – Dounia Rezzonico: «È una realtà, non solo un telefilm»
Accanto alla criminalità fatta di furti e violenze per le strade ce n’è una più subdola e silenziosa. Una criminalità che si infiltra nei meccanismi del sistema e che, da dietro le quinte, orchestra attacchi terroristici e finanzia le organizzazioni di stampo mafioso. Ma per combattere questo secondo tipo di criminalità, il diritto svizzero non è abbastanza incisivo.
È quanto emerso durante una conferenza organizzata da Ticino Welcome nella cornice del Metamorphosis di Lugano dove si sono confrontati il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi , la procuratrice federale Dounia Rezzonico , il vicesindaco di Lugano e capo del Dicastero sicurezza Michele Bertini e il presidente dell’Associazione amici delle forze di polizia Stefano Piazza . Sollecitati dal giornalista Marco Bazzi, gli ospiti si sono subito detti concordi su un aspetto: di fronte alla velocità con la quale evolve il crimine, il diritto svizzero non riesce a tenere il passo. «Nel nostro Paese la pericolosità della mafia risiede nel suo essere silenziosa – ha detto Rezzonico – non spara in strada e non mette le bombe, ma i segnali della sua presenza ci sono e non dobbiamo stare tranquilli. Tutti abbiamo visto almeno una volta un telefilm dove si parla di mafia. Ecco, la verità è che non sono solo lontane finzioni, ma è una realtà che esiste anche qui e occorre restare vigili per evitare che si trasformi in un sisma». Già perché come spiegato da Piazza, più che un obiettivo il nostro Paese rappresenta «un luogo interessante dove costruire alleanze e indottrinare dei militanti. Potremmo dire che il Ticino e la Svizzera sono un ‘‘hub’’ dove scambiarsi favori e informazioni. Non dove compiere atti violenti».
Nella lotta per contrastare questo tipo di criminalità però, agli inquirenti manca un prezioso alleato: la legge svizzera non contempla infatti il reato di associazione mafiosa, ma solo quello di organizzazione criminale, punibile al massimo con cinque anni di carcere. «È una pena troppo leggera – ha dichiarato la procuratrice federale – e in generale le normative federali in questo campo non facilitano certo le inchieste». Dello stesso parere Gobbi che ha rimarcato come «c’è un problema di percezione nella politica d’oltralpe che, essendo meno toccata da questi fenomeni, ha una sensibilità diversa. Diciamo che a volte in Svizzera interna sono un po’ naif e forse tendono a vedere le infiltrazioni mafiose con occhi più romantici perché legati ai luoghi delle vacanze. Mentre in Ticino, la nostra vicinanza con l’Italia ci ha portati ad avere una maggior presa di coscienza e a renderci forse un po’ più scafati». Una mancata percezione che Bertini non ha esitato a definire «letale per il cittadino che magari si rende conto dell’emergere di queste situazioni ma che poi, nella vita quotidiana, vede le istituzioni rispondere e sanzionare solo quando si prende un radar».
Riciclaggio virtuale
Ma a preoccupare i relatori è anche un altro fenomeno emergente: le criptovalute. Una moneta digitale che «risulta di grande interesse per chi vuole finanziare le infiltrazioni terroristiche, soprattutto se islamiche – ha spiegato Piazza – questo perché i bitcoin sono difficilmente tracciabili e quindi rappresentano un terreno fertile per questo tipo di transazioni. Mentre le organizzazioni come la ’ndangheta rimangono ancora legate ai contanti, i gruppi islamisti approfittano maggiormente di questo nuovo strumento». Ma anche qui, il terreno su cui sono chiamate ad agire le forze dell’ordine è impervio: «Da un lato c’è chi rivendica maggiore libertà economica e magari di poter pagare le imposte con i bitcoin – ha commentato Rezzonico – dall’altro, c’è il rischio di aprire una nuova strada a queste forme di criminalità».
«Occorre un gioco di squadra»
Che si incontrino sul web o in qualche locale nascosto, per controbattere i gruppi criminali Bertini non ha dubbi: occorre scendere in campo con un’azione ad ampio raggio. «Non è mettendo dei piloni di cemento alle entrate delle città che si lotta contro il terrorismo – ha detto – piuttosto, è l’insieme di diversi fattori che può fare la differenza. Dalla collaborazione tra le diverse forze dell’ordine a livello comunale, cantonale e federale passando poi per il controllo abitanti o le politiche d’alloggio. Evitando così che si creino quartieri dimenticati da Dio dove si sviluppa la criminalità». In tal senso, sollecitato da Bazzi sull’arrivo di malintenzionati che si celano sotto false attività professionali, Gobbi ha riconosciuto che «è un rischio possibile. Ma è anche per questo che ogni tanto la politica svizzera in materia di permessi è così restrittiva. Non ho problemi a dirlo: forse di fronte ad una risposta negativa qualche azienda si arrabbierà, ma qui la posta in gioco è ben più alta perché stiamo parlando di tutelare i cittadini da ospiti a dir poco indesiderati».