L’articolo e la mia intervista – a cura di Gianni Righinetti e Massimo Solari – sono stati pubblicati sull’edizione del Corriere del Ticino del 10 agosto 2018
Bloccato al confine e rimpatriato un migrante nordafricano sospettato di avere legami con ambienti radicalizzati I servizi segreti lo ritenevano una minaccia per la sicurezza interna – Matteo Cocchi: «Cruciale il gioco di squadra»
L’ombra del terrorismo islamico torna a sfiorare il Ticino. Grazie al lavoro congiunto delle autorità federali e di quelle cantonali la minaccia la scorsa primavera si è però arrestata al confine. A seguito delle analisi dei servizi segreti della Confederazione e al conseguente divieto d’entrata emanato a livello nazionale, un uomo nordafricano è stato fermato dopo un controllo avvenuto alla frontiera. Era ritenuto un pericolo per la sicurezza interna del Paese, a fronte di presunti legami con il terrorismo di matrice islamica. Il tutto con la Svizzera che gli sarebbe servita quale nazione di transito, dopo aver fatto richiesta d’asilo. L’agire del migrante è però stato bloccato e la procedura amministrativa portata avanti dalla Sezione della popolazione e dalla polizia cantonale mercoledì è sfociata nel rimpatrio forzato dell’uomo nel suo Paese d’origine.
Il fermo è avvenuto nel Mendrisiotto già alcuni mesi fa, quando in occasione di un controllo il nome dell’uomo ha fatto scattare l’allarme. «Su questa persona pendeva un divieto d’entrata sul territorio svizzero, emanato dalle autorità federali» spiega, da noi contattato, il comandante della polizia cantonale Matteo Cocchi. «Nell’ambito del proprio lavoro d’indagine a protezione dello Stato – sottolinea –, gli enti preposti avevano infatti ritenuto la figura in questione un pericolo per la sicurezza interna». Nel dettaglio, la Svizzera sarebbe dovuta servire al diretto interessato come nazione di transito. Da qui l’intenzione di avanzare una richiesta d’asilo al fine di sfruttare il nostro territorio, bloccata però sul nascere grazie alla messa in rete e la condivisione del divieto a livello cantonale e comunale.
«Ne è scaturito un iter, è importante dirlo, di natura amministrativa, che ha visto la Sezione della popolazione del Canton Ticino e la polizia cantonale attivarsi in prima battuta» evidenzia Cocchi. Per poi aggiungere: «Ha fatto seguito il coordinamento con i partner a livello federale per l’applicazione di tutte quelle misure che, mercoledì, hanno portato la stessa polizia cantonale a mettere in atto la decisione amministrativa di espulsione». E come detto – dopo un periodo di carcerazione –, accompagnato dagli agenti della cantonale per l’uomo è scattato il rimpatrio forzato nel proprio Paese d’origine nel Nord Africa tramite un volo speciale. La riuscita dell’operazione, tiene a evidenziare il comandante della polizia cantonale, «è da ricondurre al gioco di squadra delle forze in campo». Ciò detto, Cocchi pone l’accento sul fatto che «il Canton Ticino per questo specifico caso ha fatto il suo e l’ha fatto ottimamente. Nell’ambito della sicurezza nazionale abbiamo infatti raggiunto un livello tale che nelle operazioni coordinate con le autorità federali riusciamo a farci ascoltare e dunque ad avere voce in capitolo». Il nostro interlocutore rimarca inoltre l’importanza dell’episodio agli occhi della popolazione: «La rete sul piano nazionale e cantonale ha dimostrato di funzionare una volta di più. A riprova della positività del lavoro squadra. Il Ticino senza la Confederazione non può fare nulla e viceversa. Di casi simili non ve ne sono stati molti in passato, in futuro è però probabile che situazioni di questo tipo possano ripresentarsi». Due recenti episodi erano stati svelati dal Corriere del Ticino, che il 29 agosto scorso aveva riferito dell’espulsione dal nostro territorio di un turco e di un afgano che vivevano a contatto con ambienti radicalizzati.
Ma con che grado di allerta va interpretata la pericolosità per la sicurezza interna accostata all’uomo rimpatriato? chiediamo a Cocchi. «Il grado di pericolosità per la Svizzera riferito a questo personaggio è quello generalizzato, che è presente ma non risulta essere concreto. Come qualsiasi paese europeo risultiamo essere a rischio, ma attualmente non vi sono minacce effettive per il territorio nazionale e ticinese». È chiaro che se qualcuno utilizza la Svizzera come via di transito, ecco che diventa pericoloso sia per gli altri sia per noi stessi. Mi sento in tal senso di poter dire che il lavoro congiunto della Sezione della popolazione, della polizia cantonale e della Fedpol ha permesso di arginare il sorgere di un problema, non solo per gli svizzeri ma forse anche per altri paesi».
L’INTERVISTA Norman Gobbi*
«Lupo travestito da agnello: è il quinto caso in Ticino»
Ad annunciare il successo dell’operazione di intelligence è stato il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi con un post sulla sua pagina Facebook. Lo abbiamo intervistato.
La prevenzione in Ticino ha vinto una volta ancora. Un pericoloso migrante, camuffato da richiedente l’asilo è stato smascherato. Ci si deve chiedere se, di fronte a questi casi che si ripetono, siamo davvero un paese a rischio?
«Non è il primo caso, è già il quinto di questo genere che trattiamo come autorità cantonale e che è andato a buon fine. In questo ambito va proprio detto che l’unione fa la forza, ed è stata la collaborazione di tutti che ha permesso di potere dire con orgoglio che questo pericoloso uomo non è più in Ticino».
Il fatto che voleva mettere radici da noi nascondendosi dietro a quello che è un diritto per persone in difficoltà, come richiedente l’asilo, cosa le fa dire?
«Che l’attenzione e i controlli, anche se qualcuno reputa siano eccessivi, si dimostrano giustificati e utili per la sicurezza e l’incolumità di tutti. Purtroppo c’è chi tenta di approfittare per propri fini certamente non nobili. Sono quelli che io descrivo come lupi vestiti d’agnello».
Ma com’è andata?
«Il sistema di controllo e di depistaggio che sono attivi già alla frontiera ha permesso di riconoscerlo. La scheda elaborata dai servizi segreti ha dato gli elementi necessari per arrestarlo e poi procedere con tutte le misure di allontanamento forzato che si sono concluse nella giornata di mercoledì 8 agosto. Solo quando abbiamo avuto la certezza che non fosse più qui, ma nel suo paese africano d’origine, abbiamo tirato un giustificato sospiro di sollievo».
E questo è il lato positivo. Grazie a chi in particolare?
«Al lavoro attento, serio e puntiglioso di molte donne e uomini che lavorano all’ombra dei riflettori, con grande confidenzialità e con quello che si definisce il senso dello Stato, per rendere più sicuri e tranquilli tutti noi. Sono orgoglioso di queste persone, che hanno un nome, un cognome e una propria vita e che danno tutto per il loro importante lavoro».
Ora si tratterà di alzare ulteriormente la guardia?
«Direi piuttosto di essere ben coscienti che il pericolo s’insinua spesso dove credi che non ci possa o debba essere. Quello dei flussi migratori è una nicchia che, è dimostrato, viene anche sfruttata bassamente».
Dei cinque casi ticinesi, due li avevamo anche raccontati sul Corriere del Ticino un anno fa: un turco e un afgano. Uno con lo statuto di rifugiato, l’altro con quello di richiedente l’asilo. Ricorda? Dobbiamo avere paura?
«Li ricordo eccome, due casi delicati e problematici. Io dico di no, non dobbiamo iniziare ad avere paura, perché è proprio quello l’obiettivo finale di questi movimenti radicalizzati: insinuare la paura nella popolazione. Ricordo anche che la Svizzera non è un obiettivo primario di questi attacchi, tuttavia l’allerta rimane alta, perché la certezza assoluta purtroppo non esiste. Grazie all’ottima collaborazione tra autorità politiche e forze dell’ordine a livello nazionale e internazionale e allo scambio continuo di informazioni possiamo contrastare questo genere di situazioni».
Non le chiederò dettagli sul lavoro d’intelligence. Ma è un lavoro fatto in particolare in Ticino?
«L’antenna ticinese sotto la polizia cantonale che riferisce direttamente alla polizia federale e ai servizi segreti della Confederazione è certamente territoriale. Per quanto concerne la migrazione, per contro, la gestione è maggiormente centralizzata con il contributo dei servizi ticinesi quando necessario. La condivisione delle informazioni dalla Svizzera con gli altri Paesi è sempre più importante. Il migrante espulso poteva arrivare anche in un altro paese d’Europa, penso a Italia, Francia e Germania. Il fronte dell’intelligence è sempre più globale, la cooperazione vede tutti al fronte perché l’obiettivo non è solo che non arrivi in Svizzera, ma da nessuna parte nel nostro continente».
Questo compito richiede mezzi e investimenti. Da questo punto siamo ben messi?
«L’attenzione politica mi sembra ci sia e i mezzi necessari impiegati sono importanti. Ma anche per il tramite del nuovo direttore dei servizi segreti svizzeri Jean Phlippe Gaudin abbiamo chiesto più risorse perché la minaccia terroristica richiede più risorse per combatterla».
Concludiamo con una curiosità. Nel suo post su Facebook c’era una foto con lei e il collega socialista Manuele Bertoli. Una scelta mirata o un caso?
«Si tratta di un caso, ho pescato una foto e l’ho inserita. Tra l’altro Manuele è un po’ di spalle. Comunque non c’è alcun intendimento polemico o altro. Credo che la sicurezza e la necessità di mantenere attenzione di fronte a questi fenomeni non è una questione di colore politico. Ho colleghi di giustizia e polizia non della mia area politica ma di un fronte progressista. È il caso a Zurigo, ad Argovia e in altri Cantoni».