Opinione pubblicata nell’edizione di sabato 26 gennaio 2019 del Corriere del Ticino
Ricorre domani la Giornata della memoria, che riporta le nostre menti e le nostre coscienze al 27 gennaio del 1945, quando venne liberato il campo di concentramento di Auschwitz. Questa Giornata è un’accorata dedica alla sofferenza dei popoli oppressi, ma è anche un momento di profondo significato che deve risvegliare in noi la volontà di lottare contro tutte le tirannie, le dittature, le ingiustizie e le paure che condizionano e negano la libertà di ogni essere umano. Non dobbiamo mai smettere di condannare le violenze del passato e di lottare contro quelle attuali, fisiche o verbali; dobbiamo impegnarci quotidianamente a favore della nostra società e della dignità di ogni individuo, pur sempre nello stato di diritto.
Il dolore e la riflessione dovrebbero essere di tutti e tutti dovremmo impegnarci a fondo affinché questa terribile tragedia non accada mai più, e invece c’è qualcuno che non la pensa così. Per quanto incomprensibile, paradossale e inumano possa apparire, ancora oggi c’è infatti chi minimizza o nega quanto è accaduto nei terribili anni della Seconda guerra mondiale, quando l’uomo si rese protagonista di comportamenti criminali e abominevoli. Sto parlando dei cosiddetti negazionisti: questi signori, in base a tesi tanto fantasiose quanto offensive, minimizzano, banalizzano, addirittura negano fatti assodati e con i quali siamo chiamati a fare i conti, senza se e senza ma.
Ai soldati e agli ufficiali che entrarono per primi nei campi di concentramento e si ritrovarono di fronte a scene surreali, mai viste prima e destinate a segnarli per la vita, il generale americano, nonché 34° presidente degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower, ordinò di registrare tutte le prove, filmare ogni cosa, raccogliere tutte le testimonianze possibili, circostanziare ogni fatto, fissare in un modo o nell’altro ciò che stavano vedendo perché – e riprendo le sue esatte parole – «lungo la strada della storia qualcuno si alzerà e dirà che queste cose non sono mai accadute». Ebbe, ahimè, ragione… Quel qualcuno si è davvero fatto avanti, sdoganando tesi assurde che hanno alimentato l’immenso dolore provocato dai deliri della presunta onnipotenza nazista.
Negare o banalizzare equivale a iniettare il veleno del dubbio, significa causare un danno enorme, vuol dire nascondere ciò che la Storia ci ha lasciato in eredità. Non dobbiamo sottovalutare il danno potenziale ed effettivo che simili prese di posizione possono arrecare specie nelle nuove generazioni, tenendo poi ben presente che maggiore è la distanza che ci separa dal periodo 1939-1945, più efficace diventa il veleno.
Ma l’uomo – perlomeno l’ampia parte di umanità non ottenebrata da false e opportunistiche credenze – ha eretto robusti argini, confinando l’indecenza di simili posizioni in spazi chiusi e angusti: il negazionismo, inteso come negazione del genocidio del popolo ebraico e di alcuni altri eventi come il genocidio degli armeni, è infatti punito in Svizzera, Francia, Austria, Belgio, Germania, Svezia, Portogallo, Polonia, Spagna, Romania e anche in Canada e Australia. In Svizzera dal 1994 è in vigore una legge che per questo specifico reato prevede una pena detentiva fino a 5 anni.
Il tempo passa e il ricordo rischia di affievolirsi: ecco che una Giornata come questa assume un valore essenziale perché lo rafforza, lo perpetua, lo ravviva e lo attualizza. Dimenticarsi di ricordare, fare finta di nulla o – peggio! – negare sono un’offesa nei confronti di coloro che hanno vissuto sulla propria pelle i dolori più atroci, delle loro famiglie e verso chi crede ancora nella nobiltà dell’animo e dell’anima umani.
Educhiamo quindi i nostri giovani alla consapevolezza, spieghiamogli ciò che è successo, non nascondiamogli nulla, mettiamoli a confronto con il passato: in questo modo si svilupperà, forte e indistruttibile, la certezza che tragedie simili non accadano più. Abbiamo tutti una grande responsabilità: impegniamoci con serietà a favore della nostra società e della dignità di ogni singolo individuo che la compone. Lunga vita alla memoria, allora. Memoria che in ogni sua forma – dalla storia al racconto, dall’arte visiva alla musica – è importante poiché, appunto, ci permette di non cadere ancora nell’errore. La memoria non è fine a se stessa. Essa ci fa un regalo enorme: permette di comprendere fino in fondo la realtà che ci circonda, analizzandola in relazione ai fatti che storicamente conosciamo.