Articolo pubblicato nell’edizione di giovedì 12 marzo 2020 de la Regione
Il direttore: i detenuti capiscono e collaborano
«Per il momento non registriamo né tensioni né proteste all’interno delle strutture detentive. Anzi, noto da parte della popolazione carceraria comprensione e disponibilità. Del resto abbiamo puntato sul dialogo, spiegando ai detenuti le caratteristiche di questa infezione e i motivi per cui abbiamo adottato determinate misure». Il direttore delle carceri cantonali Stefano Laffranchini descrive così la situazione dietro le sbarre ticinesi in piena epidemia di coronavirus. Una realtà ben diversa da quella italiana, che in questi giorni parla di prigioni teatro di rivolte, e anche di morti fra i detenuti, dovute a provvedimenti come la riduzione delle visite. Questione anche e soprattutto di numeri e di condizioni detentive. Non poche infatti le carceridella Penisola confrontate con un perenne problema di sovraffollamento, tale da costringere più reclusi a condividere la stessa cella. Al penitenziario cantonale della Stampa si contavano ieri 201 reclusi: una sessantina nel carcere giudiziario della Farera, destinato a chi per esempio è in attesa di giudizio; il resto nella sezione penale, riservata a coloro che stanno scontando una condanna. Cifre comunque al di sotto della capienza: 260 posti.
Situazione dunque per ora gestibile.
Senz’altro. Si tratta di proteggere la salute dei detenuti e ovviamente quella degli agenti di custodia e di altri funzionari, ma anche degli operatori sociali, professionalmente attivi nelle carceri, in cui entrano e dalle quali escono ogni giorno. Come direzione abbiamo quindi introdotto alcune misure, che sono peraltro quelle raccomandate dalle autorità sanitarie. Fra queste: una distanza di almeno un metro e mezzo fra le persone (‘social distancing’), niente strette di mano, riduzione al minimo indispensabile dei contatti fra detenuti e personale, disinfettanti per le mani ovunque, controllo dello stato di salute di chi viene rinchiuso e divieto d’accesso al carcere ai visitatori e ai funzionari che accusano sintomi influenzali. Fino ad oggi non abbiamo nessun caso positivo al coronavirus. A proposito di visitatori, stiamo monitorando il loro flusso.
E che cosa osservate?
Il flusso è in calo. Per due ragioni. La prima è che il nostro servizio medico ha fatto e sta facendo un lavoro enorme di sensibilizzazione verso i detenuti. Il nostro medico è passato in ogni laboratorio dove i detenuti lavorano, spiegando loro le caratteristiche del Covid-19, e come si diffonde, invitandoli a limitare il numero delle visite. Responsabilmente, le persone recluse si stanno autoregolando, chiedendo a parenti e conoscenti di ridurre o addirittura di sospendere le visite. La seconda ragione del calo è la ‘chiusura’ dell’Italia: ora entrano in Svizzera solo i lavoratori frontalieri. Oggi il 20/30 per cento dei nostri detenuti sono cittadini italiani e non tutti residenti in Italia. Quelli che vivono in Ticino ricevevano visite anche da parenti provenienti dalla Penisola.
Direttore Laffranchini, avete adottato altre misure?
Abbiamo predisposto quindici celle dove isolare le persone detenute che hanno avuto stretti contatti con chi è stato contagiato dal coronavirus. Sono quindi celle per la quarantena. Evidentemente chi ha bisogno di essere ospedalizzato viene ricoverato in un’apposita struttura sanitaria. Sono scenari, per ora non verificatisi, che il servizio medico operativo nelle carceri, e che è alle dirette dipendenze dell’Ente ospedaliero cantonale, è pronto ad affrontare adottando i necessari provvedimenti.
Coronavirus e persone a rischio, quanti sono gli over 65 detenuti?
Attualmente pochissimi: il sette, otto per cento. E per ora godono tutti di buona salute.
Oltre a quello medico, è stato attivato il servizio psicologico?
Per il momento no. Non c’è stato bisogno. Il sottoscritto e il servizio medico puntano sul dialogo e su misure proporzionate alla situazione. Cosa che sta dando i frutti sperati. I detenuti capiscono e collaborano, attenendosi alle regole.