Intervista a Matteo Cocchi pubblicata nell’edizione di sabato 4 agosto 2018 del Corriere del Ticino
Dal cinema alla realtà, il comandante della Polizia cantonale è vigile anche al Festival
L’uomo è indiscutibilmente popolare. In piazza Grande c’è chi lo saluta, chi gli espone un pensiero o gli chiede un consiglio, chi vorrebbe avvicinarsi ma non osa. La divisa è pur sempre la divisa e anche in una società senza più inibizioni, con il «vaffa» facile come cifra di emancipazione non si sa bene da che cosa, fa pur sempre il suo effetto. Tanto più che è nuova di pacca. Alcuni turisti lo scrutano incuriositi mentre il nostro fotografo lo riprende. Vien da pensare che qualcuno finisca per chiedergli l’autografo, scambiandolo per un protagonista del red carpet cinematografaro travestito da comandante. Ma Matteo Cocchi comandante lo è sul serio: da sette anni guida la Polizia cantonale, un periodo nel quale molte cose, anche nel nostro piccolo, sono cambiate per garantire la sicurezza di fronte alle nuove minacce terroristiche globali. Piazza Grande, dove la sera possono esservi fino a 8.000 spettatori, ipoteticamente sarebbe un bersaglio facile. «Dopo gli attentati del 2015 e l’allerta scattata a livello mondiale – spiega Cocchi – abbiamo dovuto adeguare il dispositivo di sicurezza anche del Festival, con più agenti e misure anche visibili, a cui si aggiunge un congruo dispositivo non visibile che spero non debba mai entrare in funzione. Questo adattamento riguarda comunque tutte le grandi manifestazioni che si svolgono in Ticino, fermo restando che per la sicurezza all’interno dell’area dell’evento – vale per il Festival come per gli eventi sportivi – responsabili sono gli organizzatori».
Comunque a Locarno c’è sempre un ambiente aperto e informale, con un contatto diretto tra il pubblico e le personalità che altrove sarebbero blindate da massicci dispositivi di protezione. «Questo è il bello della Svizzera, la capacità di garantire la sicurezza con professionalità e soprattutto discrezione. In piazza Grande capita ad esempio che vi siano contemporaneamente due consiglieri federali e personalità di spicco che possono muoversi liberamente tra la gente», commenta il comandante, fiero di quest’equilibrio tipicamente elvetico. Fiero lo è anche per i risultati ottenuti più in generale per la sicurezza del cantone. Le statistiche fanno stato di una diminuzione della criminalità e secondo i rilevamenti del Politecnico federale di Zurigo in Svizzera e in Ticino la polizia è una delle istituzioni che godono di maggior fiducia da parte dei cittadini. Eppure in una fetta della popolazione, e dello stesso mondo politico (magari con intenti strumentali), sembra crescere il sentimento di insicurezza. Perché? «Come sempre – risponde Cocchi – vi sono la soggettività e l’oggettività. Il cittadino, nella sua visione soggettiva, può dire di sentirsi meno sicuro; noi, con i dati oggettivi, possiamo garantire che vi sono ad esempio meno furti e meno rapine. Ricordo che nel 2012, pochi mesi dopo la mia entrata in servizio, c’era il grande problema dei furti con scasso. Allora sì c’era un parallelismo tra oggettività e soggettività. A seguito di questa situazione abbiamo messo in atto dei nuovi dispositivi, riorganizzato la gendarmeria, accresciuto la presenza sul territorio e consolidato la collaborazione con le polizie comunali e le guardie di confine. Farsi vedere significa infatti fare prevenzione, che è uno dei compiti fondamentali della polizia. La situazione è dunque oggettivamente migliorata sul fronte della criminalità e devo dire che anche da parte della popolazione ci giunge un riconoscimento in tal senso. Poi è vero che i fenomeni criminali vanno a cicli; l’importante è osservare e analizzare costantemente quello che capita sul territorio per dare le risposte adeguate».
Tutto bene allora? Il comandante non nasconde la preoccupazione per un fenomeno in crescita, quello della propensione alla violenza fra i giovani e in ambito familiare. La risposta non può venire solo dalla polizia, perché è una riflessione che coinvolge l’intera società, ma qualche spunto il nostro interlocutore lo dà: «Credo che i messaggi veicolati su Internet e sui social abbiano una parte di responsabilità nel diffondere questo clima».
Ahi ahi ahi, i social. La vicenda dell’agente promosso nonostante in passato sia stato sanzionato per aver pubblicato post filonazisti e razzisti come potremmo classificarla nelle categorie pardesche? Una commedia? Un film di fantascienza? Un horror? Cocchi non si scompone, sa che questo è il colpo in canna dell’estate ticinese: «In nessuna delle tre categorie. L’agente in questione è stato pesantemente sanzionato e ha dimostrato sia di aver capito lo sbaglio sia di svolgere la sua attività in maniera professionale. Non si tratta né di sminuire l’errore né di enfatizzarlo oltre misura. Dopo un’approfondita riflessione, il comando della Polizia cantonale ha quindi deciso di proporre la nomina al Governo che l’ha avallata».
Al di là di questa vicenda, si pone però il problema dell’uso dei social da parte di chi rappresenta lo Stato, perché si fa in fretta a sbroccare in un attimo di ottenebrazione della ragione. Nell’amministrazione cantonale vi sono delle regole ben precise, inoltre – specifica il comandante – «la deontologia stabilisce che l’agente è tale 24 ore su 24. All’interno del corpo, durante la scuola di polizia e nei momenti di formazione ribadisco sempre di fare molta attenzione con i social, perché quel che si scrive rimane e anche se si agisce come privati, al di fuori dell’orario di servizio, si è comunque etichettati per la funzione pubblica che si svolge. È impressionante la facilità con cui si usano i social senza rendersi conto delle conseguenze che creano problemi sia al singolo sia alle istituzioni. Su questo martelliamo costantemente all’interno del corpo».
Mentre lo ascolto, con sullo sfondo lo schermo di piazza Grande, mi dico che anche Matteo Cocchi da bambino avrà giocato ai cowboy, imitando le epiche gesta narrate nei western americani di un tempo coi loro stereotipi (poi stravolti dal genio di Sergio Leone). Ma faceva lo sceriffo o il bandito? «Lo ammetto, ho fatto anche il bandito. Però fin da piccolo ho sempre sentito una certa attrazione verso le professioni legate alla sicurezza. Da bambino passavo l’estate in Capriasca, dove i militari erano di casa e sono sempre stato affascinato da questo mondo, dalla volontà di fare qualcosa di positivo per i cittadini e per lo Stato».
Alla guida della Polizia cantonale è molto soddisfatto del gioco di squadra che è riuscito a costruire, sentendo il polso a tutti i livelli nel corpo e nella popolazione, e soprattutto della buona intesa con la politica, con il direttore del Dipartimento delle istituzioni, con il Governo e con il Gran Consiglio «che hanno saputo cogliere le nostre esigenze. Un esempio è la recente realizzazione della nuova centrale comune d’allarme, che è la più moderna della Svizzera e che colma un tassello operativo molto importante».
Ma di tempo per andare al cinema ne ha? E quali generi apprezza? «Negli ultimi anni sono andato raramente al cinema, anche se è sempre piacevole. Apprezzo i film d’azione e quelli storici, ad esempio i vecchi classici dedicati alla Seconda guerra mondiale come Il giorno più lungo o Dove osano le aquile che riguardo sempre volentieri».
Però, ammettiamolo, come in certe pellicole dev’essere tosto sbattere sul muso del malfattore il distintivo ed esclamare: «In nome della legge la dichiaro in arresto!». Matteo Cocchi ride, indossa i panni del gangster e replica con una battuta di De Niro-Al Capone nel film Gli intoccabili: «Sei solo chiacchiere e distintivo». Ma poi riprende subito il suo ruolo di sceriffo: «Occhio, lei non sa chi sono io».
E invece lo so. Mi arrendo.