Ma come parla il Comandante?

Ma come parla il Comandante?

Opinione di Claudio Mésoniat pubblicato su ilfederalista.ch di mercoledì 2 dicembre 2020

Mi chiedo, e chiedo ai miei cari e bravi colleghi Roberto Antonini e Matteo Caratti, se fosse il caso di schierare l’artiglieria pesante per irridere e squalificare il Comandante della polizia cantonale Matteo Cocchi, reo di comunicazione pubblica inadeguata. Ieri laRegione ha dedicato al fondamentale tema la bellezza di due fondi di prima pagina (con cerniera di rimando ammirato tra il secondo e il primo). Non bastasse, oggi la RSI ha rilanciato interrogativi e crucci sollevati dai due tenori (senza ironia) del nostro giornalismo: abbiamo autorità capaci di parlare in modo chiaro e convincente? Politici, sanitari, forze dell’ordine possiedono l’ABC della strategie comunicative in tempi di crisi? O non si stanno palesando piuttosto come sprovveduti e sgrammaticati dilettanti allo sbaraglio?

Questa campagna in nome del diritto del cittadino all’informazione (e in subordine del decoro linguistico), che era stata innescata dall’ATG (associazione ticinese dei giornalisti) dopo la conferenza stampa seguita al fatto di sangue del 24 novembre alla Manor di Lugano, mi prende francamente in contropiede. Incominciamo dai punti stampa covid.

Il fatto imbarazzante è che da marzo a novembre, attaccato allo schermo per lavoro durante i martellanti briefing politico-sanitari da Bellinzona, io ho ricavato un’ottima impressione. Quasi mi vergogno (ma l’ho già scritto e pure detto in tv) però a me i vari Vitta, Gobbi, Bertoli, De Rosa, Merlani e Cocchi sono apparsi quasi brillanti, certamente efficacissimi (con le inevitabili sbavature) nell’inventarsi da un giorno all’altro strumenti e modalità espressive per reggere questo flusso quasi continuo (e utile, e necessario) di comunicazione diretta ai cittadini, per giunta con noi giornalisti a incalzarli coram populo. Se poi gettiamo un occhio a quanto succede in questi mesi nella comunicazione istituzionale di Paesi come l’Italia o gli Stati Uniti ho l’impressione che dovremmo ritenerci dei privilegiati. Mi sbaglio?

A mio giudizio l’efficacia delle nostre autorità è dipesa anche da un fatto politico eccezionale, che purtroppo rimarrà un bel ricordo, temo, quando l’emergenza sanitaria svanirà (si spera presto): una capacità di dialogare e confrontarsi anche aspramente tra loro per parlare poi a una voce sola, capacità che possiamo mettere sotto il cappello di “servizio al bene comune” (troppo vistoso durante le fasi acute dell’epidemia per essere ignorato o strumentalizzato a fini di parte). È vero, ci hanno tolto per qualche mese la scena, ci hanno surrogati, ma solo in parte, nel nostro lavoro giornalistico. Non vorrei che avessero suscitato qualche gelosia professionale… Anche perché, d’altronde, chi tra noi del mestiere è senza peccato scagli la prima pietra. E vengo al punto dell’espressione.

Nel suo pezzo Caratti (“Così parlò il Comandante”) allude a problemi di grammatica e sintassi e Antonini (“Ma come parlano?”) ha sollevato un interrogativo curioso. Se la comunicazione è stata, a parer suo, così deficitaria, cosa ci sta a fare una Facoltà di scienze della comunicazione in Ticino? Non credo si tratti di far passare dai suoi banchi poliziotti e politici (e giornalisti) ma forse, è vero, qualche corso di strategie comunicative la Facoltà potrebbe –su richiesta- impartirlo anche a queste categorie così spesso inevitabilmente alle prese con i media. Giusto. Anche i corsi per giornalisti, gestiti dall’ATG, potrebbero avvalersene. E forse anche gli insegnanti in fase di abilitazione pedagogica, del resto, come accade in altri Cantoni universitari. Giusto?

Non entriamo nell’ambito strettamente linguistico, dove sappiamo che noi ticinesi abbiamo un nostro italiano regionale, con i suoi pregi e i suoi difetti. Sui primi ci ha aperto uno squarcio illuminante un sociolinguista come Alessio Petralli, con il suo indimenticabile “L’italiano in un Cantone”. Sui secondi, all’apparenza, dovrebbe essere piuttosto la nostra scuola ad interrogarsi: ma in realtà il semi analfabetismo dei nostri giovani che accedono (e che escono) dalle università è un fenomeno generazionale molto complesso. E anche se sto divagando, mi permetto di rilevare un divertente francesismo scappato l’altro giorno a quel comunicatore scafato che è il medico cantonale, con un creativo “frappante” (per “sorprendente”, “impressionante”).

La conferenza stampa “bislacca” sull’accoltellamento, e successiva intervista volante al Comandante. Che dire? Prima di tutto che ovunque nel mondo dopo un evento di sangue tinto di terrorismo, le autorità politiche e di polizia indicono tempestivamente dei punti informativi: si tratta di fornire un quadro di massima onde evitare che dai media e dai social si diffondano bufale di ogni sorta che possono solo disorientare l’opinione pubblica. E ovunque, durante queste conferenze stampa, si ripetono fino alla noia i “non sappiamo ancora”, i “non possiamo dire, le indagini sono in corso” e via menando il can per l’aia. Niente di nuovo sotto il sole del Ticino.

Quanto al Comandante “spaesato” occorre forse tener conto –come Gobbi ha puntualizzato il giorno appresso, scusandosi con il pubblico in tv- che al punto stampa era collegata da Berna la super poliziotta della fedpol, che ha depistato qualsiasi tentativo di rispondere a domande che una risposta l’avevano già, tant’è vero che la signora le ha poi trasmesse via Twitter qualche ora dopo. E infine lo confesso: quell’ “andate in letargo” di Cocchi, che ha suscitato infinite polemiche degne di miglior causa, a me (che mi sentivo per ragioni anagrafiche direttamente toccato) era parso semplicemente efficace nella sua immediatezza un po’ spiccia. Ma sono in buona compagnia se è vero, come ha documentato un piccolo sondaggio dell’Ufficio cantonale di statistica, che la stragrande maggioranza dei ticinesi ha apprezzato la semplicità e l’efficacia della comunicazione istituzionale durante la prima ondata pandemica.