Vi porgo il saluto a nome del Consiglio di Stato ticinese e ringrazio il Delegato cantonale all’integrazione degli stranieri per aver scelto un tema così sentito qual è l’immigrazione italiana in Svizzera. La Giornata della memoria a livello internazionale si è celebrata ieri ed è legata alla commemorazione dell’Olocausto. Il Cantone ha deciso di posticipare di un giorno questa giornata per favorire la partecipazione ed il coinvolgimento delle scuole. La giornata di oggi è inserita in un programma più ampio dell’Ufficio del Delegato che include anche la Settimana contro il razzismo (che avrà luogo dal 21 al 28 marzo) e la Giornata cantonale dell’integrazione che si terrà in autunno.
Il tema scelto quest’anno susciterà l’interesse degli studenti oggi presenti e servirà quale spunto di riflessione sull’importante contributo dato dai migranti italiani al nostro Paese. Tra le vicende d’immigrazione che hanno interessato il nostro Paese, quella proveniente dalla nazione che si trova a pochi metri dal Cinema-Teatro in cui ci troviamo oggi, merita sicuramente un’attenzione particolare in quanto ha riguardato un notevole flusso migratorio.
Per secoli il Ticino è stato terra d’emigrazione. Erano i “tempi grami” in cui per i nostri antenati l’unica prospettiva di una vita migliore era spesso rappresentata dall’emigrazione (stagionalmente o annualmente) in Francia, in Italia oppure Oltreoceano; come per tutte le emigrazioni, lo scopo era sempre quello della ricerca di un futuro migliore. La fitta bibliografia, ed in particolare gli scambi epistolari tra gli emigranti ticinesi ed i propri famigliari, narrano di commoventi vicende fatte di solitudine, nostalgia, privazioni e soprusi; in queste missive si racconta però anche di fortuna e capacità di mettersi in proprio con successo, dando spesso lavoro ai propri conterranei. Insomma, storie di migranti, che come sempre possiedono letture romantiche o realiste, oppure hanno lati negativi ma anche positivi.
Soltanto verso la seconda metà dell’Ottocento, la Svizzera diventa un paese d’immigrazione. A contribuire a questo flusso immigratorio, sono i lavoratori italiani impiegati principalmente nella costruzione della nostre rete ferroviaria. Un ulteriore fase di forte immigrazione coincide con la fine della Seconda Guerra mondiale. In un’Europa dilaniata e martoriata dal conflitto, la Svizzera disponeva di un apparato produttivo intatto e capace di rispondere all’aumento della domanda di beni da un’Europa in rinascita. Una capacità data grazie anche all’impiego di manodopera immigrata.
L’immigrazione italiana degli anni Cinquanta era dovuta quindi essenzialmente a due fattori: il crescente fabbisogno di manodopera nelle nostre fabbriche e, parallelamente, l’abbondante surplus di manodopera presente in Italia del periodo post bellico. Gli accordi bilaterali del 1948 tra la Svizzera e l’Italia repubblicana – di cui parlerà tra poco il signor Viscontini – erano il prodotto di queste opposte esigenze e garantivano un trasferimento di lavoratori controllato per entrambi i Paesi. Sebbene in Svizzera migrassero anche cittadini di altre nazionalità, gli italiani divennero la componente maggioritaria degli stranieri in Svizzera. Nel 1950, si contavano 140’000 immigrati italiani, dato che costituiva il 49% dell’intera popolazione straniera censita nel nostro Paese.
La maggior parte degli emigranti erano lavoratori stagionali (il cui permesso era limitato a nove mesi), occupati principalmente nei cantieri edili, nell’industria delle macchine e pesante, e nella ristorazione. Ricordo come all’immigrato stagionale non era concesso farsi raggiungere in Svizzera dalla propria famiglia. All’inizio degli Sessanta verranno però concessi permessi di soggiorno più lunghi, e verrà presa in considerazione la possibilità della naturalizzazione per coloro che risiedono da tempo nel nostro Paese, e infine diventerà più agevole farsi raggiungere dalla propria famiglia.
Parallelamente a questa apertura, si riscontreranno anche atteggiamenti di insofferenza nei confronti degli lavoratori immigrati. In questi atteggiamenti erano coinvolti anche i ticinesi emigrati oltre Gottardo, facendoli sentire stranieri nella propria Patria. Un’emigrazione interna che ha toccato anche molti ticinesi, tanto che nel dialetto del Mendrisiotto esiste un’espressione che dice “Par guadagnà na palànca duveeva purtà i sciavatt indenta” . Quindi non solo gli italiani, ma anche i ticinesi venivano chiamato “cinkali”, e questo talvolta ancora oggi. Un termine spregiativo, per indicare gli italofoni, che deriva dall’esclamazione “Cinq!” gridato nel gioco della morra e diffusissimo un tempo tra lombardi e ticinesi. Un gioco, quello della morra, che come si può leggere nel libro di Dario Robbiani faceva spesso litigare e molte osterie erano costrette ad esporre il cartello “Morra verboten”; oltralpe, ma pure qui in Ticino.
In alcuni locali d’oltre Gottardo, vennero esposti pure cartelli con le tristemente note scritte “Fuori i cani e gli italiani”. Tra quei cani e quegli italiani c’eravamo pure noi, fedeli cittadini svizzeri e servitori della Confederazione, che difendemmo i sacri confini dall’asse nazi-fascista, gomito a gomito dei confederati tedescofoni e francofoni. Sono storie vere, raccontateci dai nostri avi; nonni e bisnonni emigrati a Zurigo a lavorare nelle fabbriche, o nel resto della Svizzera nelle ferrovie e nell’amministrazione federale, che spesso si sentivano stranieri nel proprio Paese.
Una vicenda, quella dell’emigrazione italiana, quindi ben compresa anche da noi ticinesi. Oggi, dopo oltre mezzo secolo, possiamo affermare due cose. Primo, l’immigrazione italiana è stata un’immigrazione capace di dare sviluppo a tutta la nostra economia nazionale, sapendosi poi integrare nelle seguenti generazioni nel tessuto economico e sociale svizzero. Secondo, la Svizzera e il Ticino hanno saputo dare lavoro a migliaia di migranti italiani, il cui destino – senza la nostra accoglienza – sarebbe stato sicuramente peggiore.
La migrazione italiana in Svizzera, come vedremo nel filmato realizzato su mandato dell’ufficio del delegato cantonale all’integrazione, fu fatta di diverse sfaccettature e anche di diverse origini. Prima giunsero da noi i lombardi, poi veneti, toscani ed emiliani, in seguito – nel secondo dopoguerra – i meridionali. Come in qualsiasi confronto culturale, più le distanze aumentano, maggiore è lo sforzo da compiere nel reciproco comprendersi, come pure nel vivere in realtà diverse. Quello che ebbi a definire, durante la settimana dell’integrazione nel settembre 2011, come il “microcosmo di Piotta” è la fedele rappresentazione di questa realtà. In un piccolo paese di valle, in cui il sole scompare dietro le alte montagne per quattro mesi l’anno, si trovarono confrontati i patrizi locali che da secoli vivevano in quei luoghi, con migranti provenienti dalle soleggiate e calde coste del Mediterraneo calabrese, siciliano e sardo. Totò, Minichiello e Beppe, e poi tanti altri uomini e tante altre donne, sono stati presenti nel mio breve passato, e con loro certamente la vita di questo piccolo villaggio leventinese sarebbe stata meno ricca. Altrettanto meno ricco sarebbe stato il loro destino che li ha visti trovare in questo luogo, tanto diverso dalla loro terra, un’occasione di lavoro e di crescita.
Noi ticinesi continuiamo ad emigrare in Svizzera interna, principalmente per motivi di servizio militare, di studio e di lavoro. Un’esperienza che anch’io ho fatto. Durante le scuole d’avanzamento nel Canton Berna e a Zurigo durante gli studi universitari, quegli anni mi hanno permesso di meglio comprendere la cultura svizzero-tedesca, di forgiare il mio carattere e di impadronirmi dello Schwiizerdütsch. Oggi un ticinese che vive al nord delle Alpi non è più considerato un “Cinkali”, ma è valorizzato per le sue capacità professionali e per la sua versatilità linguistica.
Dalla mia esperienza personale, posso asserire che non ci si sente più stranieri in un luogo, non appena ci si può esprimere nella lingua locale. Un’integrazione quindi, che passa inevitabilmente per la conoscenza della lingua locale e nell’accettare gli usi e costumi del posto in cui si vive, che devono essere tra gli strumenti principali per l’integrazione di qualsiasi straniero in Svizzera.
Vi ringrazio.
Giornata cantonale della memoria 2013, “Come prima, più di prima” – Memorie di lavoratori italiani in Svizzera (1950 – 1980)
28 gennaio 2013, Cinema Teatro, Chiasso
Intervento di Norman Gobbi, Direttore del Dipartimento delle istituzioni