Articolo apparso sull’edizione di lunedì 5 febbraio 2018 del Giornale del Popolo
Un corso ad hoc per scorgere i segnali di radicalizzazione tra i detenuti e prevenirla. È quanto avviene nelle nostre carceri, dove dall’anno scorso gli agenti penitenziari sono chiamati a seguire una lezione in cui vengono illustrati i principi cardine del mondo islamico. L’importanza degli imam, le cause della radicalizzazione, ma anche il contesto da cui si sono originati gli attentati di Parigi, Nizza, Londra e Barcellona. «Il progetto è nato due anni fa e dall’anno scorso ha preso avvio l’istruzione delle guardie carcerarie. A differenza di altre Nazioni –in special modo Italia e Francia – al momento non stiamo vivendo il fenomeno della radicalizzazione in Ticino. A fini preventivi, coerentemente al Piano d’azione nazionale per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento, abbiamo intrapreso questa formazione specifica», spiega il direttore delle strutture carcerarie Stefano Laffranchini. «Da noi su 250-260 detenuti, gli islamici praticanti sono 15-20 persone. Pur non essendo pochi la nostra situazione è molto diversa dagli istituti penitenziari del resto d’Europa, dove i detenuti sono migliaia, e dove diventa molto più complicato intercettare fenomeni di radicalizzazione», prosegue.
Come si struttura il progetto?
Ci siamo organizzati in una prima fase con il Centro svizzero di formazione del personale penitenziario, e da quest’anno con la collaborazione della Facoltà di Teologia dell’Università della Svizzera italiana (USI), per fornire una formazione continua di carattere molto pratico, che possa permettere al personale di comprendere la diversità di chi ha di fronte. La gestione ottimale dei detenuti passa innanzitutto dalla comprensione della cultura islamica in generale, non solo di come si svolge un processo di radicalizzazione.
Come funziona nello specifico?
Il corso dura una giornata, durante la quale un docente esterno trasmette alcune nozioni di storia e di cultura islamica, le tradizioni di cui si compone, ma pure i segnali che indicano una possibile radicalizzazione. Dal profilo logistico abbiamo la possibilità di impedire l’estremizzazione, separando gli individui e inserendoli in altri contesti culturali, ma per poterlo fare dobbiamo prima saper leggere i segnali giusti. E questo lo può fare l’agente del penitenziario che lavora a stretto contatto con i detenuti. Per i quadri e i dirigenti esiste invece una formazione impartita dal Centro svizzero di formazione del personale penitenziario.
Come sta andando? Cosa ne pensano gli agenti?
La formazione è stata recepita in maniera molto positiva, i nostri agenti trovano il corso interessante. È chiaro che il fatto che per il momento il Ticino e la Svizzera siano in qualche modo risparmiati dal fenomeno della radicalizzazione in carcere non ci permette di tracciare un bilancio sulla reale efficacia del corso impartito. Evidentemente non possiamo ancora cogliere i frutti tangibili di questa formazione specifica, non essendo confrontati con il problema.
Come vi comportate con i detenuti praticanti? Quanta libertà lasciate?
Noi garantiamo la piena libertà di praticare il culto, purché il loro comportamento sia compatibile con il modello sociale del nostro Paese. Questo significa che se il detenuto vuole digiunare in periodo di Ramadan ha tutto il diritto di poterlo fare, ma il mattino è tenuto a presentarsi sul posto di lavoro come tutti gli altri detenuti. L’esercizio della libertà confessionale deve insomma inserirsi nel contesto sociale in cui ci troviamo.
Teme che in futuro la radicalizzazione interesserà anche le sue strutture?
Il mio timore è che possa avvenire in modo sommerso. Proprio per questa ragione ci stiamo muovendo in maniera preventiva, con questi corsi. Dobbiamo poterci rendere immediatamente conto se insorgono fenomeni di radicalizzazione. Una volta colti i segnali abbiamo gli strumenti necessari per intervenire. Il problema è proprio riuscire a riconoscerli precocemente, non trascurando alcun segno.