Intervento pronunciato dal Consigliere di Stato Norman Gobbi in occasione del seminario «La Comunità svizzera a Firenze: ieri e oggi» del Circolo svizzero di Firenze |
Signor Ambasciatore d’Italia presso la Confederazione,
Signor Ambasciatore di Svizzera presso la Repubblica italiana,
Signor Presidente del Consiglio Regionale per le festività di Firenze capitale,
Signora Presidente del Consiglio Comunale,
Signor Console Onorario,
Signora Direttrice del Gabinetto Vieusseux,
Signor Presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia,
Signora Presidente del Circolo Svizzero di Firenze,
Signora Presidente della Chiesa Riformata Svizzera di Firenze,
Signore e signori,
Care e cari amici,
è un onore e un piacere particolare per me, quale rappresentante della Repubblica e Cantone Ticino, uno dei 26 Cantoni della Confederazione elvetica e l’unico interamente di lingua madre italiana, essere presente oggi tra di voi ed avere l’opportunità di pronunciare le parole introduttive di questo seminario, organizzato dal Circolo svizzero di Firenze in collaborazione con la Fondazione Spadolini Nuova Antologia e il Gabinetto Vieussieux. A loro va il mio ringraziamento per questo apprezzato invito, che onora il Ticino e la mia persona.
Per la maggioranza dei Cantoni svizzeri la politica estera è un compito più straordinario che ordinario. Il Ticino appartiene però al gruppo minoritario delle regioni di frontiera, e ai suoi 5 Consiglieri di Stato, i membri del Governo collegiale, capita più spesso di occuparsi delle relazioni internazionali. L’incontro di oggi, tuttavia, non celebra tanto la vicinanza geografica fra due territori, quanto piuttosto quella spirituale; una vicinanza che si è costruita attraverso i secoli, soprattutto grazie alla fortunata e mutevolmente proficua integrazione di molte famiglie svizzere, e ticinesi, che nel corso dei secoli hanno lasciato un contributo, una traccia visibile, nella vostra bellissima città di Firenze. I discendenti di alcune di queste prestigiose famiglie sono qui oggi presenti e a loro rivolgo il mio saluto.
Se mi permettete il paragone un po’ ardito, questa vicinanza spirituale nasce prima di tutto dal ruolo dei nostri territori nel mosaico linguistico dei rispettivi Paesi. Se il Ticino è infatti il baluardo della lingua italiana in Svizzera, sappiamo benissimo che Firenze della lingua italiana è la culla. Potremmo allora pensare a un legame che si concretizza nei nostri fiumi. Per voi l’Arno, nel quale tutti sappiamo come il Manzoni sia venuto a sciacquare i propri panni per dare vita all’italiano contemporaneo. Per noi il Ticino, fonte di vita che sgorga dalle Alpi per poi viaggiare verso l’Italia e il mare. E allora, sarebbe bello che proprio sulla lingua italiana, in futuro, potessimo trovare nuove forme di collaborazione: di certo il nuovo ambasciatore italiano a Berna, da fiorentino DOC, sarà sensibile all’argomento.
Chi parlerà dopo di me avrà l’onere e certamente il piacere di raccontarvi i dettagli delle relazioni che nella Storia hanno legato i destini della Svizzera e di Firenze; per questo io cercherò di concentrarmi su alcune vicende legate alla mia terra, il Ticino – anche se dovrete concedermi una digressione, legata a una delle mie più grandi passioni: la storia, e quella militare particolarmente.
Un volume davvero ponderoso pubblicato nel 2010 – Arte & Storia “Svizzeri a Firenze” ha ripercorso la storia delle relazioni fra Firenze e la Svizzera, e fa risalire l’inizio di queste relazioni al Cinquecento. In quegli anni, quando gli svizzeri emigravano principalmente quali eccellenti soldati presso le Corti nobiliari e le Repubbliche di mezz’Europa, molti uomini della regione di Locarno giunsero a Firenze per operare quali facchini, ovvero trasportatori di merci per la dogana. Erano originari di Brissago, delle Centovalli e delle Terre di Pedemonte, e negli anni costituirono un vero e proprio monopolio nel settore del trasporto delle merci, destinato a durare per più di tre secoli. Un piccolo segno di questa presenza si è conservato fino a oggi sul lato nord di Palazzo Vecchio, dove la dogana aveva la propria sede e dove ancora si trova una Porta con questo nome.
Nel Seicento e nel Settecento è stata la volta degli stuccatori e dei pittori ticinesi, per esempio quelli appartenenti alle famiglie Ciseri e Molinari; persone che hanno fatto dell’arte una missione da tramandare di padre in figlio. Non possiamo ignorare il contributo ticinese al patrimonio storico e artistico della Città di Firenze, tanto importante da spingere qualcuno a parlare di «tre grandi fiori candidi», che il nostro Cantone ha regalato alla vostra Città: la Sala Bianca in Palazzo Pitti, la Sala della Niòbe nella Galleria degli Uffizi e il Salone delle feste nella Villa del Poggio imperiale. Tre spazi che risalgono alla fine del Settecento e devono la loro bellezza al lavoro di decoratori ticinesi, in particolare i fratelli malcantonesi Giocondo e Grato Albertolli.
Più avanti nel tempo, saranno poi gli arrotini a scendere dal Ticino a Firenze: nel 1820 da Losone giunsero sull’Arno i Bianda, maestri nei ferri taglienti, che ancora oggi possiedono uno dei negozi più caratteristici della Piazza Grande di Locarno. E da alcuni decenni a questa parte non si può parlare di Piazza Grande senza accennare al Festival internazionale del film di Locarno e a uno dei suoi padri, Raimondo Rezzonico; un uomo di cultura e slanci visionari che negli anni Cinquanta-Sessanta divise la sua passione fra il cinema e l’arte. E la sua collezione di autoritratti di artisti del XX secolo, nel dicembre 2005 è stata ceduta proprio alla vostra Galleria degli Uffizi, suggellando l’antico patto di unione fra ticinesi e fiorentini.
Non voglio poi dimenticare il legame della lavorazione della paglia, che fra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento vide costituirsi una vera e propria tradizione svizzero-fiorentina, e anche un fiorente mercato. A questo proposito mi rallegra sapere che nella nostra valle Onsernone questo materiale tradizionale ha vissuto negli ultimi anni una piccola rinascita – e chissà che non possano fiorire anche nuove relazioni commerciali con il vecchio amico fiorentino…
Con il rischio di mescolare sacro e profano, concludo questa carrellata parlando anche di sport: i legami fra il Ticino e Firenze sono infatti stati rinsaldati, in anni recentissimi, grazie alla passione per il calcio. La vostra Fiorentina, che vanta un club di tifosissimi sul versante ticinese del Lago Maggiore, ha stretto da alcune stagioni un’alleanza con il FC Ascona; l’obiettivo è di formare giovani talenti, e chissà che non capiti di vedere presto un giocatore ticinese in maglia viola.
Fin qui ho parlato delle relazioni privilegiate fra il nostro Cantone e la vostra città, ma – come vi ho anticipato – c’è anche, tra molti e rimarchevoli cittadini elvetici, uno svizzero-tedesco illustre che ha legato il proprio nome alla vostra città e che voglio ricordare. Si tratta di Carlo Steinhauslin, di famiglia elvetica, ma nato e cresciuto in città, che fu console svizzero a Firenze; a partire dal 28 luglio del 1944, nella città occupata dalle forze naziste, si trovò a essere l’unica autorità cittadina che parlava tedesco. Come rappresentante di una Nazione neutrale, si occupò pertanto di dialogare con il comandante militare della città, il colonnello Fuchs. Steinhauslin si impegnò personalmente, non senza rischi, in uno sforzo di mediazione che gli permise di salvare molti abitanti della città e anche molti dei suoi tesori monumentali. Convinse l’alto ufficiale del Reich a non fare esplodere una costruzione, salvando così l’erogazione di acqua potabile, e più volte cercò di rendere Fuchs più sensibile alle sofferenze dei civili. Per questi suoi sforzi, che ne fanno un vero eroe dei nostri tempi, l’arcivescovo di Firenze gli donò una pergamena che lo definiva «fedele interprete delle alte concezioni svizzere, sempre improntate a nobili sensi di lealtà, di umanità e di giustizia».
Se però siamo qui oggi, in questo magnifico luogo carico di storia, è per rievocare un altro tassello, di particolare splendore, del mosaico di legami fra Svizzera e Firenze.
Preparandomi per questo incontro ho cercato di conoscere meglio la storia del Gabinetto Vieusseux, e mi ha profondamente colpito scoprire quale fosse l’intento del suo fondatore, nel 1820; questo luogo era infatti pensato come un centro di lettura e propagazione di periodici e di libri stranieri, all’epoca poco diffusi in Italia. L’idea era di portare nuova linfa alla cultura del Paese, attraverso la contaminazione con il meglio della produzione straniera, proprio nel bel mezzo di quel periodo storico definito della restaurazione, quando l’Europa e con essa l’Italia, dopo i moti della Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche, era entrata in una fase, almeno dal punto di vista politico, di chiusura conservatrice. Si tratta di una missione che rimane senz’altro attuale anche oggi, malgrado la globalizzazione dell’informazione e la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazione di massa, e alla quale dovremmo forse dedicarci con più impegno; nonostante l’oceano sconfinato di informazione che oggi è a nostra disposizione in ogni istante – o forse proprio per questa ragione -, capita spesso di cedere alla pigrizia e finire ripiegati in una dimensione ultra-locale. La prima lezione che voglio tenere a mente, quindi, riguarda l’importanza dello slancio verso l’esplorazione culturale, approfittando del fatto che questa impresa per noi comporta molte meno difficoltà tecniche che per i contemporanei di Giovan Pietro Vieusseux.
C’è poi una seconda lezione che ho imparato dagli approfondimenti sul Gabinetto Viesseux e sulla rivista Nuova Antologia. Ad aiutarmi è stato l’amico Salvatore Maria Fares, anima del Circolo Nuova Antologia di Lugano, che mi ha permesso di avvicinarmi alla figura di Giovanni Spadolini: un fiorentino purosangue che ha intrattenuto rapporti stretti e cordialissimi con la Svizzera e con il Ticino. Uno dei massimi statisti italiani del XX secolo che, di certo, è una fonte d’ispirazione anche per chi cerca di fare bene il mestiere della politica nel nuovo Millennio.
Europeista ma federalista, Spadolini guardava alla Svizzera come a un modello, perfetta sintesi dello stato nazionale multilingue e consociativo: laica e repubblicana, conglomerato di fedi diverse liberamente professate nella tolleranza e nel rispetto. Spadolini vedeva nella Confederazione il Paese del rigore, delle sovranità popolari, dal livello del Comune fino a quello della Confederazione.
Quanto forte fosse l’ammirazione di Spadolini per la Svizzera si capisce dalle sue stesse parole; in un’intervista del 1982 descriveva il suo sogno di «un’altra Italia, quella che noi stiamo cercando di far vivere oggi». Descrivendo questo sogno, parlava di un Paese «delle autonomie, dove c’è uno spazio per il pluralismo sociale e culturale».
Noi svizzeri amiamo dire che abitiamo nel Paese del compromesso. Il Cantone che insieme ai miei quattro colleghi ho il privilegio di contribuire a governare ne è un buon esempio, e fa da specchio anche per la realtà federale. Con un potere Esecutivo che vede coinvolti quattro partiti da destra a sinistra, il dialogo e il compromesso sono l’unica strada alternativa alle secche della paralisi e dell’impossibilità di rispondere alla richieste dei cittadini. Questo ovviamente rende ogni decisione più lenta e laboriosa, rispetto a sistemi «a colore unico»: eppure, il lavoro di consolidamento delle soluzioni svolto dietro le quinte permette alla fine di rappresentare tutti gli interessi, e fare in modo che nessuna voce che si leva dalla comunità rimanga inascoltata.
Dopo avervi parlato delle lezioni che ho imparato preparando questo mio intervento, è forse questa la lezione che posso permettermi di condividere con voi. Una lezione che riassume il modo svizzero di fare politica, e dice che nessuno può pensare seriamente di amministrare lo Stato semplicemente conquistando il potere e ignorando le rivendicazioni di una parte dello spettro politico.
Concludo qui questo mio intervento, non senza una certa fretta di lasciare la parola e di rientrare nei miei panni di politico; di rimettermi, cioè, in una posizione di ascolto e massima attenzione. In questo mio sentimento sono confortato proprio da una frase di Giovanni Spadolini, che mi ha molto colpito e che credo porterò per molto tempo con me: «L’intellettuale deve cercare le verità, il politico si deve impegnare nell’azione. Essenziale è far sì che l’azione non contraddica la verità. Alla fine il politico che conta è quello che più ha contribuito alla causa della verità e della libertà».
Grazie per l’attenzione.