I docenti si stanno isolando da soli

I docenti si stanno isolando da soli

Dal Corriere del Ticino del 18 marzo 2016

Il presidente del Governo difende Manuele Bertoli e critica il corpo insegnante
Norman Gobbi scende in campo in vista dello sciopero al contrario dei docenti del 23 marzo. Spezzando una lancia a favore del collega Manuele Bertoli e dei provvedimenti presi dal Governo, il presidente critica l’atteggiamento del corpo insegnante, a suo modo di vedere privilegiato in un mercato del lavoro incerto come quello ticinese. In questa intervista al Corriere del Ticino, il direttore del Dipartimento delle istituzioni si sofferma anche sulla manovra di rientro e sulla presidenza che ormai volge al termine.

In qualità di presidente del Governo la disturbano le affermazioni del collega Manuele Bertoli in merito all’intoccabilità della scuola dell’obbligo nell’ambito della manovra di rientro?
«Si tratta di scelte strategiche interne al DECS. Significa che i risparmi si faranno evidentemente in altri ambiti. In merito al confronto tra Bertoli e gli ambienti scolastici ho comunque una mia visione».

Quale?
«I docenti si stanno isolando dal resto dei funzionari statali. Dimenticano infatti che nell’Amministrazione si andrà a ridurre il personale, mentre nel mondo scolastico – a livello obbligatorio e post-obbligatorio – le unità non vengono diminuite. Inoltre, mi hanno molto stupito certe lettere scritte dagli insegnanti al Governo».

C’è un caso che l’ha colpita?
«Ho avuto modo di visionare il testo scritto dal collegio dei docenti del Centro professionale tecnico di Trevano, nel quale si parla di “azioni di lotta” e di “mobilitazione generale in piazza” delle associazioni sindacali e magistrali. Ecco, se queste sono le idee degli insegnanti a cui un giorno dovrò affidare i miei figli, qualche domanda me la pongo. E ribadisco: certi docenti non si rendono conto di come determinate azioni portino per forza di cose all’isolamento».

Intanto il PS, partito di Bertoli, è sceso in campo a favore dello sciopero al contrario del 23 marzo. La sorprende?
«Da un lato c’è un aspetto politico di difesa di questi lavoratori, dall’altro però è la riprova che anche il PS non riesce a interpretare la situazione globale. Parliamo in effetti di 5.000 docenti che hanno uno stipendio e un posto sicuro. Oltre che di un settore, quello della scuola, dove il precariato è stato praticamente eliminato. E tutto ciò non viene considerato? Mi pare che il corpo docente stia dimenticando quanto avviene nell’economia privata, dove assistiamo a un rallentamento congiunturale, con molte persone che restano senza lavoro. Il Cantone è chiamato a destinare sempre più risorse per rispondere alle esigenze di chi non è in grado di rientrare nel mondo del lavoro e per i casi d’assistenza. Mi chiedo quindi se questa lettura fortemente ideologica è quella che alcuni insegnanti trasmettono anche agli allievi».

Ritiene quindi che questo tipo di protesta non possa essere giustificato?
«Anch’io ho avuto funzionari dei miei settori poco contenti. Non è mai bello bloccare degli scatti salariali automatici. Quello che fa più male è che durante gli incontri con le associazioni del personale e i sindacati abbiamo subito chiarito che la nuova scala salariale dei dipendenti porterà a un miglioramento. E il fatto che questo non venga ripreso nelle riflessioni dei docenti può voler dire due cose: o i sindacati non parlano con i propri rappresentanti nella scuola, oppure volutamente si sottacciono le migliorie in arrivo per distogliere l’attenzione dagli obiettivi che non sono stati in grado di raggiungere in questi anni».

Come si spiega questi attriti tra base e direzione del DECS?
«I mal di pancia ci saranno sempre. A mio modo di vedere molto si gioca nel rapporto di lealtà che si riesce a creare in anticipo tra dirigenza e collaboratori. Non sempre il capo del Dipartimento porta buone notizie: io stesso ho tenuto delle serate alla fine dello scorso anno con le associazioni del personale di polizia durante le quali mi è stato impossibile garantire che nel 2016 sarebbe stato tutto rose e fiori».

Nell’intervista di ieri al Corriere del Ticino, Bertoli pare porre un aut aut al Governo. Prima di esprimersi sull’iniziativa in votazione il 5 giugno, attende di vedere se ci saranno le risorse per il progetto «La scuola che verrà». I soldi ci sono o no?
«Prima di tutto il progetto “La scuola che verrà” è in fase di definizione e quindi il relativo fabbisogno finanziario non è ancora noto. Sappiamo che è emersa una certa opposizione nel mondo della scuola e perciò siamo coscienti che una riforma di questo tipo potrebbe necessitare di tempi più lunghi. Come avviene per tutti i nuovi compiti, il Governo dovrà trovare una sua convergenza, oltre a elaborare misure volte a compensarli. D’altra parte lo ha fatto pure il sottoscritto quando ha rivisto gli effettivi della polizia o delle strutture carcerarie. Se il progetto sarà valido si troveranno i dovuti margini d’azione, ma lo stesso discorso sarà necessario per l’applicazione della Riforma III delle imprese, gli investimenti legati alla mobilità o ancora la socialità. Ogni Dipartimento, in effetti, sarà confrontato con nuovi compiti. Non è però corretto chi fa confronti interdipartimentali, e ciò alla luce delle importanti riforme che il Cantone è chiamato a portare avanti con delle risorse limitate».

Insomma, vi sono o no dei settori da considerare come zona franca?
«Non parlerei di zone franche. Anche perché se guardiamo ad esempio i dati PISA c’è la necessità di rafforzare la formazione scolastica di base in Ticino. I nostri giovani devono confrontarsi con un mercato del lavoro sempre più globale e il fatto che nel nostro Cantone vi siano 7.000 persone iscritte agli Uffici di collocamento e 6.700 circa in assistenza è da ricondurre a una componente sociale, ma anche di carattere formativo. E se per mantenere un certo livello di competitività tra la manodopera locale c’è bisogno di fondamenta più solide nella scuola dell’obbligo non posso che essere d’accordo».

Anche lei ha dei settori da dichiarare alla stregua di un terreno minato?
«L’importante è che ognuno presenti delle misure che raggiungano gli obiettivi finanziari prefissati. Poi ogni Dipartimento è libero di definire internamente le priorità d’intervento. Se invece qualcuno non dovesse fare i compiti in modo corretto, evidentemente interverrebbe il Governo. Per fortuna non sembra essere il caso».

Per quanto riguarda le Istituzioni può già indicare gli ambiti dove probabilmente si andrà a risparmiare?
«Nel mio ambito, un po’ come avviene per il DECS, il peso finanziario più importante è generato dai costi del personale. Le misure di risparmio andranno dunque in questa direzione, nell’ottica soprattutto di ottimizzare le diverse organizzazioni e l’utilizzo delle risorse a disposizione. E penso a quei settori dove, grazie alla tecnica che può essere di supporto al lavoro amministrativo, c’è un certo margine di manovra».

Il suo anno di presidenza volge al termine. Tra casellario, accordi fiscali contestati e corsa al Consiglio federale, qual è il suo bilancio?
«Visto che in questi giorni l’hockey è d’attualità, uso una metafora sportiva: pur essendo solo il primo della legislatura è stato un anno simile a una partita di playoff. Il gioco è stato intenso, ma soprattutto siamo riusciti a creare lo spirito di squadra che auspicavo, al di là di visioni differenti e di qualche inevitabile screzio all’interno del collegio governativo. Non è infatti possibile spegnere quel dibattito necessario sulle priorità d’intervento da fissare. Ad assorbirci maggiormente in questi mesi, senza tuttavia impedirci di fare politica e di essere progettuali, è stata inevitabilmente la manovra per riequilibrare le finanze. Sono convinto che questa unità d’intenti possa perdurare anche una volta presentate le diverse misure di risparmio: se penso ad esempio al rischio di strappo annunciato da Bertoli all’ultimo Congresso socialista, noto che al momento non si è affatto concretizzato. E poi con questa intervista in fondo mi espongo dalla parte di Manuele, a dimostrazione che il Governo è concorde nel difendere i provvedimenti collegiali e che nessun consigliere di Stato dev’essere lasciato solo se attaccato. Quanto avverrà in Parlamento, però, potrebbe essere un’altra storia».

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