Il Consiglio di Stato procederà domani al tradizionale cambio di presidenza, con Norman Gobbi che passerà il testimone a Manuele Bertoli.
Abbiamo intervistato il direttore delle Istituzioni per un bilancio di questi dodici mesi.
Norman Gobbi, questi dodici mesi avrebbero dovuto essere quelli della ripartenza, invece si è trovato a gestire la seconda e anche la terza ondata della pandemia. Si aspettava una strada così in salita?
«Così in salita forse no. Nessuno di noi si aspettava un periodo così lungo di chiusure. Questo è stato forse l’aspetto più difficile da gestire. La prima fase si è risolta in due mesi mentre nella seconda non c’era una prospettiva di termine e la stanchezza si è fatta sentire di più. L’abbiamo visto con la riapertura delle terrazze: la popolazione aspettava davvero di poter tornare a godere di queste piccole libertà».
Lo scorso 23 novembre lei ammise, davanti al Gran Consiglio, che da parte del Governo qualche errore era stato fatto. A distanza di cinque mesi da quell’affermazione, come giudica l’agire del Governo?
«Di errori ne commettiamo sempre e l’ho sempre ammesso sin da quando arbitravo. L’impostante è non peccare di superbia. Quello che abbiamo fatto è mantenere il passo del montanaro. Un’espressione forse un po’ logora, perché la ripeto da diversi mesi, ma che rappresenta la realtà. Senza questo passo prudente non avremmo tenuto così tanto tempo. In situazioni simili bisogna andare avanti con sicurezza ed essere coerenti, e come Governo la coerenza non l’abbiamo mai persa. Magari sul piccolo caso puntuale sì, ma non sul medio o lungo periodo. Il Governo è stato coerente e ha mantenuto la sua linea, pur incassando qualche critica, per esempio nel periodo pasquale. Non abbiamo ascoltato gli allarmismi da parte di alcuni rappresentanti del settore sanitario che prevedevano una strage dopo le riaperture. Fortunatamente, questi scenari non si sono mai concretizzati e il numero dei nuovi contagi è inferiore a prima delle festività».
Con il senno di poi, come Governo vi rimproverate qualcosa?
«Qualcosa da mettere a posto ci sarà. Spesso siamo molto orientati a guardare al nostro interno ed è mancato un dialogo intersettoriale, ma il Consiglio di Stato l’ha fortunatamente capito subito ed è riuscito a equilibrare tutte le posizioni. C’era chi voleva più chiusure, chi voleva riaprire subito ed è stato necessario trovare il giusto equilibrio. Penso per esempio al dialogo con il mondo della scuola, un tema che lo scorso anno ha creato una piccola crisi istituzionale, gestito bene grazie al dialogo a al conforto di risultati che non indicavano l’ambito scolastico come particolarmente a rischio di contagi».
Passiamo ora ai rapporti con il Consiglio federale. Durante la prima ondata Berna aveva concesso deroghe al nostro Cantone. Nei mesi successivi, invece, le richieste del Ticino – ad esempio, maggiori controlli al confine oppure la riapertura delle terrazze dei ristoranti per Pasqua – sono rimaste lettera morta. È stato uno sgarbo?
«Il Consiglio federale aveva già subito critiche quando aveva riconosciuto le prime eccezioni al Ticino. Per evitare di ricreare lo stesso caso e innescare altre richieste simili ha deciso di tenere una linea unica. Ma quando la linea è unica c’è sempre qualcosa che non va. I problemi degli altri cantoni di frontiera sono minori dei nostri. Non hanno né la nostra stessa vicinanza a una metropoli come Milano, né la stessa pressione di popolazione che entra e esce dai confini. La situazione del Ticino, in un sistema che deve garantire la parità di trattamento, va a discapito dei ticinesi. Questa situazione particolare, ne abbiamo discusso in Governo, andrà portata avanti nei prossimi anni. Il Ticino, in particolare dal punto di vista delle relazioni economiche e del flusso di persone, ha relazioni più intense proprio verso sud che non verso nord. Dovremo portare all’attenzione di Berna il fatto che il Ticino è un angolo della Svizzera maggiormente esposto a fenomeni di tutti i tipi e deve essergli riconosciuto questo “caso speciale”».
Dopo dodici mesi da primus inter pares ora rientra nei ranghi: quali sono i temi prioritari sulla sua agenda?
«Mi concentrerò su progetti strategici: la riorganizzazione delle ARP – un cantiere che impatterà molto, rivedendo completamente un concetto di organizzazione – e il potenziamento della Magistratura. Sarà anche importante, in un periodo di crisi, far capire all’Amministrazione cantonale che dovrà essere più flessibile e orientata ai bisogni di persone e aziende, senza venire meno al suo compito di controllo e vigilanza».
Nell’ultimo anno è stato molto sollecitato dai media. Normale amministrazione per il presidente del Governo?
«Non sempre. Normalmente il presidente del Governo prende posizione o parla a nome del plenum in un paio di circostanze ben precise. Penso per esempio alla presentazione dei preventivi. Così come parzialmente avvenuto durante la presidenza del mio predecessore Christian Vitta, in questi ultimi quindici mesi sono stati invece cancellati del tutti gli incontri con la “società civile”. Siamo invece stati molto più sollecitati in qualità di portavoce del Consiglio di Stato. Il collegio governativo ha però sempre fatto squadra e per il presidente è stato più semplice presentarne la posizione».
È curioso che il passaggio alla presidenza avvenga tra due consiglieri di Stato che, politicamente parlando, rappresentano due estremi. Faccia un augurio a Bertoli.
«Spero possa essere davvero il presidente durante il cui mandato entreremo nella normalità. Pensiamo al Festival del Film di Locarno: se potremo organizzarlo in presenza, seppur in forma rivista, sarebbe un bel segnale che Bertoli potrà dare anche in qualità di direttore del DECS».
Intervista pubblicata nell’edizione di martedì 4 maggio 2021 del Corriere del Ticino