Dal Corriere del Ticino del 10 agosto 2018 – un articolo a cura di Giovanni Galli
Obbligo di servire: il sistema norvegese (esteso a tutti) piace al Governo ma non ai Cantoni
Il capo del DI: «Sarebbe uno choc culturale, un’idea poco sostenibile davanti al popolo»
Complici le difficoltà che stanno incontrando esercito e protezione civile a completare i loro ranghi, il tema dell’obbligo di servire sta tornando d’attualità. Il mese scorso (cfr. CdT del 12 luglio) la Conferenza governativa per gli affari militari, la protezione civile e i pompieri ha esortato il Consiglio federale ad approfondire un modello che prevede di raggruppare protezione e servizio civile. Un modello già scartato a Berna, ma che secondo il consigliere di Stato Norman Gobbi, presidente della Conferenza, è da preferire a quello che sta esaminando attualmente il Dipartimento della difesa e che prevede un obbligo di servire generalizzato, esteso alle donne, come in Norvegia. Secondo il Consiglio federale questa soluzione è innovativa e orientata al futuro. L’obbligo di servizio varrebbe in principio per tutti, ma all’atto pratico non sarebbe sistematico. A svolgere l’uno o l’altro servizio verrebbero chiamate solo le persone effettivamente necessarie. Le forze armate avrebbero la possibilità di selezionare da un ampio bacino, indipendentemente dal sesso, le persone più qualificate e motivate. Il risultato degli approfondimenti dovrebbe essere reso noto a fine 2020.
Per i Cantoni però non è una soluzione. «Per tre motivi», spiega Gobbi. «Innanzitutto è un modello molto distante dalla nostra cultura. Se già oggi è difficile obbligare le donne a partecipare alla giornata informativa, pensiamo cosa comporterebbe un obbligo di prestare servizio “tout court”. Secondo: sarebbe un cambio di cultura estremo, uno choc difficile da superare e poco sostenibile in una votazione popolare. In terzo luogo non risponde alle necessità dei Cantoni. Il modello norvegese prevede ad esempio l’impiego nell’ambito dei pompieri, le cui competenze però in Svizzera sono cantonali e comunali, con una forte componente basata sul volontariato. Quest’ultimo aspetto non deve essere vanificato. Se a questo livello viene introdotto un obbligo di servire, la motivazione non sarebbe la stessa di chi opera quale volontario. I pompieri per primi vedono male un obbligo, perché quella del volontariato è una componente importante tanto quella professionale».
Manca gente
Il modello preferito dai Cantoni è denominato «obbligo di prestare servizio di sicurezza» e, al pari di quello norvegese, faceva parte delle varianti presentate nel 2016 da uno speciale gruppo di lavoro federale. La Conferenza ha già sollecitato due volte senza successo Parmelin a prenderlo ugualmente in considerazione. Dietro questa richiesta c’è un problema concreto. Per garantire l’effettivo di 72 mila militi nella protezione civile andrebbero reclutate ogni anno almeno 6 mila persone. Ma mentre nel 2010 ne venivano arruolate più di 8 mila, nel 2017 il loro numero è sceso a 4.800. Quanto alle forze armate hanno un fabbisogno di incorporazione di 18 mila militi all’anno, una soglia minima che quest’anno potrebbe non essere raggiunta.
Una via di mezzo
«Chiediamo che questo modello venga valutato in parallelo a quello norvegese. Lo consideriamo una via di mezzo tra lo status quo e il cambiamento totale legato al modello preferito dal Consiglio federale. Si tratta di unire servizio civile e protezione civile in una nuova organizzazione strutturata e non armata, denominata “protezione in caso di catastrofe” e che può rispondere ai bisogni della società in caso di emergenze, catastrofi naturali e tecnologiche, eventi bellici. Tale modello permetterebbe di non più disperdere risorse nel servizio civile, che non presta servizio in modo strutturato e che in caso di crisi non è paragonabile ad un’organizzazione di secondo scaglione come la PCi».
Il rapporto del 2016 tuttavia definiva non adeguato il modello caldeggiato dai Cantoni, in quanto configurerebbe una violazione del divieto dei lavori forzati. Un’obiezione che secondo Gobbi non regge. «Nessuno verrebbe mandato nelle cave a lavorare. Gli astretti al servizio verrebbero impiegati in favore della collettività, un po’ come avviene per il servizio civile ma in una struttura organizzata, in grado di rispondere meglio a determinati bisogni e più adatta alle esigenze dei Cantoni. Oggi il Servizio civile non è subordinato ai Cantoni. È una struttura federale nella quale vengono messi a disposizione posti occupati secondo i desiderata dei singoli membri. In un momento di pace va bene, in caso di crisi no». Cosa cambierebbe con il vostro modello per il servizio civile? «Non sarebbe più un mero rispondere ai desiderata individuali ma ad una missione di servizio alla collettività, in maniera strutturata».
Con il modello preferito dai Cantoni si stima che verrebbero considerati abili al servizio 30.400 delle 40 mila persone soggette agli obblighi militari. Queste presterebbero servizio per nove anni dal reclutamento. Gli idonei sarebbero pertanto 260 mila. Per l’esercito l’aumento dell’idoneità significherebbe un effettivo reale di 165 mila unità, mentre le altre 95 mila sarebbero disponibili per la protezione dalle catastrofi. Per i compiti di pubblica utilità del servizio civile resterebbero a disposizione 25 mila persone. «Oggi vediamo assottigliarsi gli effettivi dell’esercito, visto che molti commutano sul servizio civile. L’esercito si è ritrovato costretto a rivedere i suoi criteri di idoneità al servizio, attingendo al “serbatoio” della protezione civile. Il servizio civile non è un organo di sicurezza. Il popolo ha votato per il mantenimento dell’obbligo di servire nell’ambito della sicurezza. Constatiamo invece che il mandato costituzionale non viene correttamente adempiuto».