Articolo pubblicato nell’edizione di mercoledì 21 febbraio 2018 del Corriere del Ticino
Dice addio a smalti e unghie per lanciarsi in una nuova avventura: essere una guardia di custodia alla Farera «Ero stufa della superficialità di alcuni clienti» – Sul rapporto con i detenuti è schietta: «Basta farsi rispettare»
L’agente di sicurezza, la camionista o ancora la boscaiola. Anche in Ticino sono sempre di più le donne che, in barba ai pregiudizi più datati, si cimentano con mestieri «da uomini». Nelle scorse puntate abbiamo incontrato l’ispettrice di cantieri Marika Beretta (vedi edizione del 28 novembre), la spazzacamina Jessica Kosky (22 dicembre), la camionista Monica Menegola (30 dicembre) e la vigilessa del fuoco Ottavia Gaggini (27 gennaio). Oggi il Corriere del Ticino dedica spazio a Selene Alcini, ex estetista ora guardia carceraria alla Farera.
Lasciare il lavoro da estetista per diventare una guardia carceraria. È la strabiliante storia di Selene Alcini, classe 1988, che da un giorno all’altro ha detto addio a trucchi e smalti per le unghie ed è diventata un’agente di custodia presso il carcere della Farera. Una scelta che Selene che ci racconta con voce chiara e frizzante mentre la incontriamo sul posto di lavoro dove, rigorosamente in divisa, unico indizio del suo passato sono le curatissime unghie nere. «C’è stato un momento in cui non riuscivo più a sopportare la superficialità di un certo tipo di clientela – ci spiega – allora ho deciso di cambiare e mi sono informata per quanto concerne la formazione in Polizia. E lì ho scoperto che c’era anche questa possibilità». A spingere la nostra interlocutrice verso questa professione non solo un carattere forte e deciso, ma anche una certa curiosità: «Alcuni miei amici si erano lanciati in Polizia ed era una scelta che mi solleticava. A differenza di loro però, non mi convinceva l’idea dell’arma. Quindi sono ben contenta che qui non portiamo la pistola».
Come ci racconta Selene, a caratterizzare il lavoro in carcere è anche il fatto che «si gestisce la persona. Non è un pronto intervento come per gli agenti di polizia. Qui, con il tempo, si conosce il detenuto e si sviluppa un rapporto di dialogo: c’è chi ti racconta che la moglie gli ha fatto visita, chi ti mostra la foto del bambino o ancora chi aspetta una lettera e ti chiede dei consigli. Alla fine, noi donne siamo impiegate nelle strutture carcerarie non solo per una questione pratica come lo spoglio delle detenute, ma anche per una questione emotiva. Non dimentichiamo che il detenuto uomo si confida molto più facilmente con una donna, le racconta di una problematica e, non da ultimo, manteniamo viva una propensione al dialogo che per una persona incarcerata da molto tempo tende ad affievolirsi». Soddisfatta della propria decisione, oggi Selene non ha dubbi: è stata la scelta giusta. Ma come hanno reagito parenti e marito di fronte ad una simile capriola? «I miei ex colleghi come pure i clienti non ci credevano. Anzi, ritenevano che semplicemente non fosse possibile perché questo è un mondo prettamente maschile. E devo dire che non ho ricevuto un gran sostegno da parte loro. Tutt’altra storia per quanto concerne i miei genitori che mi hanno sempre spinta a seguire l’istinto. Ecco, forse mio marito è rimasto un po’ scioccato – ride – diciamo che non è molto favorevole all’idea che io sia all’interno di una struttura chiusa, circondata da persone che stanno attraversando un periodo difficile». E per riuscire a conciliare vita professionale e vita privata, Selene ha delle regole ben precise: a separare i due mondi sono le mura della Farera. «Quando si esce da qui bisogna essere capaci di ‘’decomprimere’’ – ci spiega – evitare insomma di portarsi a casa il lavoro e viceversa: come entro nel carcere tutti i problemi di vita quotidiana restano fuori». Una separazione che viene facilitata anche dalle norme stesse della struttura dal momento che all’interno della Farera sono banditi telefonini e l’accesso a internet o ai social media. «Per otto ore siamo tagliati fuori dal flusso delle notizie e dei contatti – continua la nostra interlocutrice – e ammetto che all’inizio è stato abbastanza difficile perché sono sempre stata una persona molto attiva sui social. Ma è una questione di sicurezza e, dopo tre anni di lavoro alla Farera, posso dire di essermi abituata».
Superati i test fisici e psicologici d’entrata, per diventare guardia carceraria Selene ha seguito la scuola cantonale per agenti di custodia e al momento frequenta la formazione federale a Friburgo. E, proprio come tutti gli studenti, non si scappa alla tesi di laurea: «Mi piacerebbe approfondire il tema delle incarcerazioni di transessuali – racconta – un argomento di cui si parla ancora poco in Svizzera ma che esiste e che richiede un’attenzione particolare. Soprattutto per quanto concerne la gestione e l’integrazione di questi detenuti». Ma la lezione più importante, la nostra interlocutrice la vive tutti i giorni sulla propria pelle, a stretto contatto con i detenuti. E anche se giovanissima, porta con sé una valigia già piena di esperienze. «Non mi dimenticherò mai di quando, l’anno scorso, mi sono trovata confrontata con un acuto problema di salute di un detenuto – ci racconta – mi ricordo ancora di quando ho aperto la cella e ho capito cosa stava succedendo, trovandolo privo di sensi. Con i colleghi sono riuscita a rianimarlo ma poi, quando a qualche ora di distanza ripensi a quanto accaduto, ti stupisci della lucidità con la quale hai agito. Ed è merito della formazione. Ma non puoi sapere di essere pronto finché, effettivamente, non ti succede». Sollecitata sulle difficoltà di questo mestiere, la nostra interlocutrice non ha un attimo di esitazione: «Quando di fronte ti trovi un bambino». Come ci spiega Selene infatti, per legge le detenute donne hanno il diritto di tenere in carcere il figlio fino all’età di tre anni. «E ce ne sono – continua – ma mantenere le distanze con un bebè non è evidente. Chiaramente in questi casi si mettono a disposizione dei giochi nella cella e il necessario affinché il bimbo possa svilupparsi correttamente, ma non è facile. Non dimentichiamo che, anche se piccolissimi, imparano già tutto». Schietta e diretta, Selene è una persona con la quale ci si trova subito a proprio agio e, tra una chiacchiera e l’altra, ci si dimentica di essere in un carcere. Ma come reagiscono i detenuti quando, di fronte, si trovano una giovane ragazza? «Generalmente portano rispetto – assicura– l’importante è non lasciare mai che venga oltrepassato il limite. È basilare. Poi è chiaro che con i detenutisi instaura un rapporto perché loro hanno bisogno di parlare. L’importante è che sia un’apertura a senso unico: non devi mai raccontare qualcosa di te. Ognuno ha i suoi trucchi: c’è chi la butta sul ridere, chi risponde con un’altra domanda. Basta non rivelare mai dei dettagli personali». Senza infine dimenticare che «i detenuti sono persone – conclude Selene – come vedono che tu rispetti loro, loro rispettano te. Non lo nego, ci sono nazionalità che non concepiscono l’idea di ricevere ordini da una donna e in questi casi, piuttosto che forzare, semplicemente li si affida ad agenti uomini. Quando si parla di sicurezza non c’è spazio per questioni di genere».