Decio Cavallini, la missione di un capo

Decio Cavallini, la missione di un capo

Intervista all’interno dell’edizione di giovedì 13 febbraio 2020 de La Regione

Alla testa dei Reparti speciali, dello Stato Maggiore, della Gendarmeria. Per Decio Cavallini è arrivata la pensione. “La Polizia cantonale è stata per me una ragione di vita”.
«In dicembre ho fatto il giro dei posti di polizia per salutare i miei collaboratori. Ho incontrato tanta gente, stretto parecchie mani, ho guardato negli occhi molte persone… alcuni colleghi si sono messi a piangere… non avrei mai immaginato… e allora mi sono detto… ‘ho fatto il mio dovere… missione compiuta’». L’emozione ha il sopravvento, anche in chi non te lo aspetti. Perché Decio Cavallini è uno tutto d’un pezzo. Un decisionista, lo definiscono. Di certo, un’istituzione nell’istituzione, la Polizia cantonale. Che ha servito per trentacinque anni. «Ho servito soprattutto i cittadini, contribuendo a garantire la loro sicurezza», puntualizza. Ha lavorato sotto sei comandanti: Giorgio Lepri, Mauro Dell’Ambrogio, Saverio Wermelinger, Franco Ballabio, Romano Piazzini e Matteo Cocchi. Dal 2007 al 2019 è stato, con il grado di tenente colonnello, a capo della Gendarmeria (ora guidata dal maggiore Marco Zambetti), l’unità della Cantonale cui competono il primo intervento e il mantenimento dell’ordine pubblico. Bellinzonese, sessantacinque primavere il prossimo 6 giugno, Cavallini è in pensione dalla fine dello scorso anno. «Se fosse stato possibile, sarei rimasto in polizia per altri cinque anni – dichiara alla ‘Regione’–. Ho la fortuna di essere ancora in salute. Mi alzo la mattina con la voglia di indossare la divisa. Ma ho fatto il mio tempo ed è giusto che mi faccia da parte. Per me servire lo Stato è stata una ragione di vita, non esagero. E ho affrontato tutte le sfide professionali nella Cantonale con dedizione, senza badare a feste e orari».

E le sfide sono state tante.
Direi proprio di sì. Sono entrato in polizia il 1° dicembre 1984. Lavoravo come elettrotecnico e a un certo punto decisi di cambiare mestiere. Volevo diventare istruttore militare, ma all’epoca vi era il blocco del personale in seno alla Confederazione. Partecipai quindi a un concorso per ufficiale della Polizia cantonale, destinato ai Reparti speciali. Venni assunto. Sono rimasto nei Reparti speciali, in veste di ufficiale aggiunto responsabile, fino al 2003, dirigendo, tra il 1999 e il 2001, anche la Gendarmeria del Sopraceneri. Nei primi anni della mia carriera il caso Baragiola, al quale ho lavorato anch’io, mi ha permesso di allacciare importanti contatti con i colleghi italiani dell’anti-terrorismo e dunque di crescere professionalmente. Sono stato poi capo dello Stato maggiore, occupandomi fra l’altro della pianificazione e della condotta delle operazioni. Sempre quale responsabile dello Stato maggiore ho pure diretto la Scuola di polizia, riorganizzando la formazione in vista dell’introduzione del certificato federale. Nel 2007 sono stato nominato alla testa di tutta la Gendarmeria. Nel 2011 e per alcuni mesi ho svolto, con il collega Flavio Varini, la funzione di comandante della Polizia cantonale, dopo le dimissioni di Piazzini e nell’attesa della designazione del suo successore.

Decio Cavallini, com’è cambiata la criminalità nei trentacinque anni che ha trascorso nella Cantonale?
Quella violenta è diminuita. Ho cominciato a lavorare in polizia quando in Ticino si facevano molte rapine a mano armata, talvolta con sequestro di persone, e si sparava. Sparavano i delinquenti, sparavamo noi. Gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sono stati molto problematici dal punto di vista della sicurezza. C’erano le bande dei torinesi e dei bergamaschi. Gente pronta a tutto. Come quella volta a Locarno durante la rapina a una gioielleria: un malvivente non esitò a sparare contro un gendarme, ferendolo gravemente, che era riuscito a penetrare nel locale. Di rapine ne abbiamo anche oggi, ma non c’è paragone, per quantità e qualità dei colpi, con quanto avveniva quarant’anni fa. Se pensiamo anche ai furti, la situazione è notevolmente migliorata e per un insieme di fattori: la maggior presenza della polizia sul territorio, le sue campagne di sensibilizzazione, l’aumento dei controlli, una popolazione più attenta, le case più sicure. Tutto questo ovviamente è il frutto di una costante attività di prevenzione e repressione da parte delle forze dell’ordine. Le antenne sono, devono essere, sempre alzate.

Si pensi del resto a un fenomeno degli ultimi tempi: gli assalti con esplosivo ai bancomat.
In questo caso abbiamo a che fare con bande criminali internazionali, che agiscono dove sanno di poter racimolare un bottino consistente. Ora, a differenza di quelli in funzione in altri Paesi, i nostri bancomat mettono a disposizione parecchia liquidità. Col tempo però la gente pagherà sempre di più con la carta o con gli smartphone. Grazie alla sua notevole capacità di adattamento, la criminalità troverà nuovi sistemi per fare soldi. E a quel punto sarà fondamentale per le forze di polizia individuare tempestivamente sul piano investigativo le necessarie contromisure. Una sfida non da poco. Ma oggi intravedo altre emergenze, altre priorità.

Quali?
La criminalità finanziaria e gli stupefacenti: due ambiti che giustificano ampiamente un potenziamento, urgente, della Procura e mi auguro che la politica si muova di conseguenza. Un’altra emergenza è il traffico veicolare. Abbiamo sì meno incidenti, meno morti e feriti di un tempo. Ma in Ticino strade e autostrada sono sempre più intasate. Il che si traduce in un accresciuto impiego di mezzi e agenti di polizia per cercare di rendere scorrevole la circolazione. Mi preoccupano inoltre le infiltrazioni mafiose.

Al riguardo il Consiglio federale ha varato un piano nazionale contro la criminalità organizzata. Non arriva forse in ritardo?
L’importante è che questo piano sia arrivato e che al suo allestimento abbia collaborato, con la Polizia federale, la Polizia cantonale ticinese. A quest’ultima l’esperienza non manca sicuramente. Cito per esempio le inchieste Grave e Igres nonché gli arresti in Ticino di latitanti con ruoli di primo piano in organizzazioni criminali italiane di stampo mafioso. Erano gli anni Novanta. In seguito la competenza del perseguimento del reato di organizzazione criminale è passata agli organi inquirenti federali. Attualmente la ’ndrangheta è l’associazione mafiosa più potente a livello internazionale. In Ticino, e non solo qui, agisce nell’ombra. Per ora non spara, per non destare allarme sociale e innescare la dura reazione dello Stato. Continua così a riciclare e a trafficare in armi e droga. È però questo agire in maniera silenziosa che rende la mafia in generale particolarmente pericolosa, potendo insinuarsi fra l’altro nei settori dell’economia legale compromettendone i meccanismi, a danno di tutta la collettività. Occorre allora che anche i cittadini e chi opera nell’economia legale segnalino per tempo alle forze dell’ordine situazioni anomale, sospette. Poi però bisogna indagare, approfondire. E le inchieste penali le fanno investigatori e magistrati, dunque persone.

Si spieghi meglio.
Per contrastare il crimine organizzato non sono sufficienti le sole leggi. Centrali sono coloro chiamati ad applicarle. E l’ho capito molto bene quando ho avuto la fortuna di conoscere Falcone, Caselli e altri magistrati italiani, dovendomi occupare, quale responsabile del competente servizio della Polizia cantonale, anche della sicurezza di giudici e capi di Stato stranieri quando venivano in Ticino. Oggi ho la sensazione che gli inquirenti federali siano un po’ lontani dal territorio e dalle sue dinamiche. È per questo che il ruolo della Polizia cantonale è fondamentale e forse bisognerebbe destinare maggiori risorse al suo nucleo di intelligence.

Poliziotti che indagano e poliziotti indagati. Rispondendo lo scorso ottobre a un’interrogazione parlamentare, il Consiglio di Stato ha scritto che negli ultimi quindici anni ci sono stati 799 agenti imputati (‘sia della Cantonale che delle singole polcomunali’): al 2 ottobre 2019 erano stati emessi dalla Procura 386 non luoghi a procedere, 81 abbandoni, 4 atti d’accusa e 42 decreti d’accusa. Quasi 800 agenti indagati in quindici anni: troppi?
Da un profilo puramente statistico no, alla luce dei 15mila interventi in media all’anno per urgenze o operazione di mantenimento dell’ordine, cui si aggiungono le varie inchieste della Polizia giudiziaria. La sola Gendarmeria tratta annualmente 40mila pratiche in generale. Nella formazione degli aspiranti poliziotti si pone l’accento anche sull’etica e la deontologia. La Polizia cantonale è la prima a denunciare all’autorità giudiziaria i comportamenti penalmente rilevanti dei propri collaboratori e ad adottare provvedimenti disciplinari. Di collaboratori la Cantonale ne conta oltre settecento: sarebbe una pia illusione pretendere che tutto funzioni senza inconvenienti. I cittadini chiedono giustamente un comportamento esemplare da parte dei poliziotti. Nessun abuso di autorità. Ma i poliziotti – che spesso devono decidere in una manciata di secondi – chiedono rispetto per il loro lavoro. Da tempo sollecitano un inasprimento delle sanzioni penali per chi usa violenza fisica e verbale nei confronti dei funzionari dello Stato. Essere bersaglio di insulti, sputi o pesanti minacce quando sei chiamato a mantenere l’ordine in un dopo partita non è impresa facile. Mi creda.

‘Mi sono sempre assunto la responsabilità delle mie decisioni’
3 ottobre 1992: un gruppo di detenuti armati evade dal penitenziario cantonale della Stampa. La loro fuga in auto dura poco. Muoiono due reclusi e un agente di custodia complice, raggiunti dai colpi sparati dai reparti speciali della Polizia cantonale appostati ad alcune centinaia di metri dal carcere. A dirigere il dispositivo di agenti c’era lei. Cavallini, cosa ricorda di quella mattina?

Tutto. Avevamo appreso di un’evasione imminente. Ma le indagini non avevano avuto esito. Organizzammo quindi un dispositivo per sorvegliare a distanza il carcere durante le ore notturne. Per un mese circa non accadde nulla. Fino a quel sabato mattina. Eravamo comunque pronti. Giunte le auto con a bordo i detenuti in prossimità del posto di blocco, intimammo l’alt. Ma ingranarono la retromarcia, cercando di investire degli agenti. Avevano granate e altre armi. Aprimmo il fuoco. Ci furono dei morti, ma non potevamo agire diversamente. Quei detenuti erano pericolosi, avevano gravi precedenti. Una delle menti della fuga era un ex terrorista italiano di Prima Linea. Aveva ucciso un anziano passante mentre evadeva da un carcere italiano. Lo arrestammo in Ticino: con altri si stava recando in Svizzera interna per far evadere delle persone.

Per i fatti della Stampa la polizia venne penalmente scagionata nel 1993, nel ’97 arrivò anche l’assoluzione amministrativa. Come visse quei quattro anni?
Una persona mi fu molto vicina in quel periodo: l’allora vicecomandante Ivan Bernasconi. Sì, un periodo difficile per me, ma ero io il responsabile di quell’operazione. E io mi sono sempre assunto la responsabilità delle decisioni che prendevo e che i miei uomini eseguivano. Come per la manifestazione sul ponte-diga di Melide.