Discorso pronunciato dal Consigliere di Stato Norman Gobbi in occasione della conferenza pubblica “Vecchia e nuova emigrazione italiana: discriminazione di ieri e di oggi” |
Gentili signore,
egregi signori,
cari organizzatori,
Autorità pubbliche e cittadini,
essere qui con voi oggi a parlare di immigrazione e integrazione, a nome del Consiglio di Stato del nostro Cantone, è per me un grande piacere. Non ho scelto questa parola a caso, così come non è scelto a caso il titolo che ho voluto dare a questo mio intervento, ovvero «Costruire un luogo comune, smontando i luoghi comuni».
Come dicevo, il primo luogo comune che voglio smontare riguarda proprio il piacere che sento in questo momento. Sono molto felice di essere qui: per prima cosa perché tengo davvero al tema dell’integrazione… e anche perché questo discorso mi fa sentire un po’ più giovane dei miei 40 anni appena festeggiati.
Ero infatti un fresco Consigliere di Stato quando quasi sei anni fa, nel novembre del 2011, ho tenuto il mio primo discorso sul tema dell’integrazione. Non erano pochi quelli che mi aspettavano al varco, aspettandosi che “il ministro leghista” dicesse chissà cosa. Erano prigionieri di un fraintendimento, che si è nel tempo calcificato, fino a trasformarsi purtroppo in luogo comune: avevano rinunciato a farsi un’idea personale su di me, cedendo alla seduzione delle soluzioni preconfezionate.
Tuttavia, voglio ribadire anche oggi quanto ho detto più volte in questi anni: fra i miei difetti non ci sono né l’essere stato punito per atti discriminatori, né l’avere lanciato accuse generiche contro gli stranieri in quanto tali. Di recente sono stato criticato per alcune mie dichiarazioni concernenti il caso dei permessi che ha toccato uno dei miei uffici. È facile, spesso, voler travisare il senso delle parole e decontestualizzare quello che una persona intende. Anche nei momenti più difficili, ho sempre cercato di affermare chiaramente che l’azione di alcuni elementi negativi non deve spingerci a nascondere gli elementi positivi del nostro vivere in una società mista. Perciò, anche se mi rendo conto che questo potrà anche suonare strano a qualcuno, un Consigliere di Stato eletto sulla lista della Lega dei Ticinesi può affrontare il tema dell’integrazione in maniera serena e pragmatica, libero da ogni preconcetto ideologico, ma rivolto al raggiungimento di obiettivi misurabili.
L’integrazione è fondamentale per la nostra società. Trasmettere i nostri valori, i nostri usi, le nostre tradizioni il nostro modo di vivere allo straniero che giunge sul nostro territorio è il modo migliore per garantire una convivenza serena e anche la coesione sociale.
Si tratta di uno strumento efficace che consente di prevenire ad esempio fenomeni come la radicalizzazione di estremisti – come ho avuto modo di ribadire anche recentemente in occasione dell’arresto in Ticino di un presunto reclutatore dell’Isis.
Magari per qualcuno queste mie parole potranno suonare sorprendenti, ma mi ripeto; è sufficiente conoscere bene la mia storia personale, per capire quanto l’integrazione sia per me un concetto naturale. Il mio vissuto mi porta lontano da qualsiasi forma di pregiudizio contro chi è altro da me, perché alla diversità sono stato confrontato fin da bambino. Per questo, come nel 2011, intendo oggi raccontare a tutti voi un po’ della mia storia personale.
Come molti sanno sono cresciuto in una valle, ma la Leventina degli Anni ottanta era tutt’altro che un luogo abitato al 100% da indigeni. Oggi potrà sembrare strano, ma Piotta in quegli anni era un vero laboratorio, nel quale, in anticipo sui tempi, vivevamo la società amalgamata che oggi si è diffusa a tutto il territorio ticinese.
I miei nonni materni abitavano in una palazzina dell’allora Piottawerke. Di sei famiglie, solo due erano svizzere: le altre erano italiane della Lombardia, della Calabria, della Sardegna e della Sicilia. Oltre all’abitazione, i nonni condividevano con i nostri vicini la passione dell’orto e quella per lo sport, e le loro relazioni andavano ben al di là del semplice viversi accanto. I miei nonni paterni, invece, erano commercianti: avevano bottega, panetteria e ristorante. Erano a capo di un’azienda integrante, con una trentina di posti di lavoro occupati in maggioranza dalle mogli dei migranti italiani e balcanici che lavoravano nelle fabbriche della zona industriale di Piotta.
La presenza delle industrie e delle imprese edili faceva sì che anche a scuola la componente migratoria fosse molto rappresentata. Il contatto tra autoctoni e nuovi arrivati era quindi naturale, perché cominciava in classe e, finiva dopo la scuola, sul ghiaccio con l’HC Ambrì-Piotta e in palestra con la Società federale di ginnastica, vere palestre spontanee di integrazione. Non solo per i giovani, ma anche per gli adulti, giocando a carte o a bocce.
Questo era il microcosmo di Piotta e dell’Alta Leventina. Queste sono le persone accanto alle quali ho vissuto i primi anni della mia vita, e questo è l’ambiente dove sono cresciuto. Questa è la mia storia. Sono cresciuto con la convinzione che l’ambiente privilegiato per l’integrazione sono le strutture di base della nostra società: strutture nelle quali ognuno è chiamato a svolgere correttamente il proprio ruolo, secondo il principio della responsabilità individuale, che rende ogni cosa più facile anche nel campo dell’integrazione.
Il nostro compito di buoni cittadini, perciò, è di praticare ogni giorno questa responsabilità, e di tenerci lontani dai luoghi comuni che cercano di addossare ogni colpa allo Stato perché inattivo, allo straniero perché refrattario o allo svizzero perché discriminatore. Solo così potremo compiere il primo passo verso quella coesione sociale interna che è oggi di estrema attualità, considerando i tempi critici che abitiamo.
È un primo passo, come detto, al quale ovviamente ne dovranno seguire altri, da parte della politica. E su questo punto voglio essere tanto franco quanto lo sono stato finora: l’idea che sia nostro dovere aprire indiscriminatamente le frontiere è semplicemente irresponsabile. In tempi di crisi economica, instabilità sociale, insicurezza internazionale, le regole e i limiti sono i soli strumenti che ci permettono di rispondere in modo adeguato preoccupazioni dei nostri cittadini, sia svizzeri sia stranieri residenti. Preoccupazioni naturali e giustificate, che non possono essere semplicemente liquidate come paure irrazionali.
Il nostro territorio è stato toccato – e lo è ancora – dal forte afflusso di migranti alle porte del nostro Cantone. Non stiamo chiudendo le porte in faccia a queste persone: le Guardie di confine e il Ticino stesso stanno gestendo la situazione rimanendo nei margini consentiti dalla legge. La tendenza dei nuovi migranti, con la chiusura delle altre vie europee per accedere ai Paesi del nord Europa, è quella di voler unicamente transitare dalla Svizzera, senza depositare una richiesta d’asilo.
Le cifre d’altra parte parlano chiaro. Per questo motivo, queste persone vengono riaccompagnate in Italia, il Paese in cui sono stati registrati. Non stiamo discriminando nessuno. Il mio approccio è responsabile nei confronti del nostro Paese. L’impressione è che per molti, il fatto di avere un leghista a capo della sicurezza significhi per partito preso voler discriminare a tutti i costi l’altro. Ma almeno per una volta voglio fare chiarezza.
Dicevo in apertura dei luoghi comuni: solo quando avremo smantellato tutti i luoghi comuni potremo costruire un luogo – un territorio – davvero comune a tutti: fatto di regole e di integrazione. Come detto, non è un esercizio di retorica, proprio perché sono convinto che il rispetto delle differenze che ho vissuto nella mia Leventina possa crescere e affermarsi in tutto il nostro Canton Ticino.
Grazie a tutti per l’attenzione e buon proseguimento con la conferenza pubblica.