Gentili signore, egregi signori,
Dover parlare dell’unità d’Italia vista dagli altri mi potrebbe destabilizzare per la vastità dell’argomento. Tanti infatti sono gli elementi che hanno contraddistinto la storia vista dall’esterno di questa Penisola, porta dell’Europa Centrale sul Mediterraneo. Talmente tanti che potremmo passare ore per elencarli.
Vorrei però inizialmente concentrarmi sugli aspetti più prossimi, ossia quelli vissuti a cavallo della frontiera. Ci troviamo di fronte a svariati punti in comune; da una parte la cultura ticinese formata e influenzata dalla cultura lombarda e italiana, dall’altro il fatto che un gran numero di famiglie che abitano nel Cantone Ticino sono frutto dell’unione di cittadini dei due Paesi, ma anche – e sono oltre un quinto – di sola cittadinanza italiana. Senza poi dimenticare che il Canton Ticino dà lavoro a circa 55mila frontalieri, occupati nelle aziende attive in Svizzera.
Certo i tempi cambiano e anche gli orientamenti dei flussi migratori pure. Infatti, prima della Seconda guerra mondiale era il ticinese o lo svizzero che si recava per lavoro in Lombardia e in Italia, dai piccoli spazzacamini di fine Ottocento agli imprenditori che si insediarono a Como, in Brianza e a Milano. L’emigrazione dei ticinesi si spiega con la comunanza di lingua, religione e cultura nonché con la prossimità geografica. Spesso l’emigrazione era temporanea, quasi stagionale. I ticinesi del Sopraceneri andavano in Italia in inverno mentre quelli del Sottoceneri approfittavano dell’estate. Dalla Leventina arrivavano mercanti di bestiame e formaggi, osti, caffettieri e lattai e andavano soprattutto in Lombardia. I marronai, fruttivendoli, cioccolatai e i camerieri arrivavano dalla valle di Blenio. I primi andavano a Milano, Genova e Firenze, i secondi in Lombardia, come gli albergatori e cuochi provenienti dal Locarnese, negozianti, ramai (i famosi magnan della Val Colla) dal Luganese, muratori, marmisti, carbonai dal Mendrisiotto e mercanti di legna dalla Valle di Muggio. Una spinta la diede certamente l’apertura della linea ferroviaria del San Gottardo, che collegò il mondo tedescofono alla pianura padana e in particolar modo alla città meneghina. A dimostrazione di quanto strutturata fosse l’emigrazione svizzera in Lombardia, il 15 dicembre 1883 fu fondata la “Schweizer Verein in Mailand”, ossia l’associazione degli Svizzeri a Milano.
Venendo alla Lombardia durante il periodo austro-ungarico, nel 1848 a Milano risiedevano famiglie svizzere che due anni più tardi fondarono la Chiesa protestante. Tra queste troviamo il banchiere Ami Reymond di Grand Bayard (Neuchâtel), che fu nominato console di Svizzera nel 1836 e poi console generale nel 1847, il banchiere ginevrino Charles Brot (1823-1895), che fu membro del consiglio di amministrazione delle ferrovie lombardo-venete. Nella guerra del 1859 Brot rimase solo a Milano ed assunse la direzione dei trasporti con competenza ed efficacia. L’industriale Jules Richard di Nyon (Vaud) creò nel 1842 una fabbrica di ceramica a San Cristoforo alle porte della città. A fine Ottocento, si ritiene che a Milano vi fossero circa cinquemila svizzeri, una cifra ragguardevole per quel tempo!
Sull’immigrazione in Ticino vi sono alcuni dati interessanti. La popolazione svizzero-tedesca nel Canton Ticino crebbe dallo 0,26% del 1837 al 5,34 del 1920 (anche qui grazie alla Gotthardbahn). Per contro gli immigrati italiani dal 6.6% registrati nel 1850 al 21.3% del 1920. Inoltre, dalla fine dell’Ottocento era iniziata un’ondata migratoria italiana diretta soprattutto verso la Svizzera tedesca: 10’000 italiani nel 1860, 202’809 nel 1910.
Col tempo le situazioni sono di molto rovesciate. È per questo che, anche nell’ambito della Regio Insubrica, nei rapporti politici occorre essere vicini l’un l’altro; primo, per migliorare i rapporti tra aziende svizzere manodopera lombarda, e secondo per una migliore collaborazione e reciproco rafforzamento tra imprenditorialità italiana e servizi finanziari elvetici e ticinesi. Sono infatti convito, che unicamente con uno sguardo incrociato sulle due realtà si riesca a comprendere la grande potenzialità di questo territorio insubrico.
Chi mi ha preceduto è intervenuto sulla Lombardia prima dell’Unità, sulla realtà del borgo di Morazzone, su Chiesa e Unità d’Italia, su patrioti e briganti. L’Italia vista dagli altri dicevo. La Confederazione svizzera e l’Italia – prima come Regno e poi come Repubblica – hanno relazioni ufficiali da 150 anni. Un secolo e mezzo di storia fatta di contatti e scambi sottolineati anche dal progetto “Italia-Svizzera: la storia dal 1861 al 2011”, promosso dall’Ambasciata di Svizzera in Italia e dalla Direzione generale affari internazionali del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
In realtà, se analizziamo bene le nostre relazioni, in questi 150 anni la reciproca conoscenza è cresciuta assai poco, anzi. Come abbiamo visto prima le relazioni prima e dopo la nascita dello Stato unitario con le singole realtà territoriali erano ottime e proficue, ma con il Ventennio fascista e le sue velleità irredentistiche sulla Svizzera italiana portarono alla chiusura e l’allontanamento lungo la fascia di confine. Infatti, la spaccatura venne acuita dal pericolo e dalle minacce di invasione dell’Asse contro la Svizzera (con i piani Vercellino e Tannenbaum), così come il voler “riportare i patri confini al San Gottardo” da parte dei fascisti irredentisti ticinesi.
Ad essere interessati dall’Irredentismo italiano ed i suoi legami con il Risorgimento furono essenzialmente i numerosi immigrati italiani nel Canton Ticino. La massima rappresentante di questo Irredentismo italiano in Svizzera fu, infatti, Teresina Bontempi, figlia di Italiani emigrati a Locarno. I Ticinesi cercavano al contrario maggiore autonomia da Berna, ma sempre restando entro i confini svizzeri, secondo il motto tradizionale “Liberi e Svizzeri”.
Tra le argomentazioni manipolatorie degli irredentisti e in particolare di Teresina Bontempi dalle colonne del giornale L’Adula, a giustificazione dell’annessione del Ticino al Regno d’Italia, vi era la posizione geografica del Canton Ticino, dipingendolo come povero e arretrato e addossando la colpa del “sottosviluppo” al Governo federale. In realtà, se la situazione economica del Cantone a sud della Confederazione non era tra le più felici, era comunque migliore di quella della vicina Lombardia dalla quale provenivano infatti numerosi immigrati.
Una ferita che non si sanò con la fine della Seconda Guerra mondiale, poiché i sistemi divennero sempre più incompatibili e con l’aggiunta che il Governo repubblicano promosse l’emigrazione (interna ed esterna) quale vettore per lo sviluppo del Meridione, perché l’Italia faceva dell’emigrazione una sua vera e propria attività e con i proventi dell’emigrazione e il flusso del turismo pareggiava la bilancia dei pagamenti.
Una Svizzera che ha accolto numerosi italiani in asilo nei tempi degli esili e che oggi concede la residenza senza pregiudizi a coloro che vogliono risiedervi e partecipare alla sua crescita. La Confederazione elvetica viene presa ad esempio per molti politici e cittadini italiani, che ammirano il federalismo svizzero e invidiano i nostri bilanci statali (notabene: anche nel 2011 la Confederazione scriverà un risultato positivo per 1.2 Miliardi di franchi). Federalismo è sì l’unione di singole repubbliche legate da un patto, dove le deleghe vengono fatte dal basso verso l’alto, ma è anche il risultato di un lungo processo storico, culturale, religioso, economico e politico.
Un risultato – mi permetto di dire – di successo, in cui i singoli stati federati hanno sovranità nelle rispettive competenze. Un sistema che alcuni vollero dare alla nascente Italia unita (come fece senza successo Carlo Cattaneo a metà Ottocento) e che oggi si vorrebbero adottare per gestire la Repubblica Italiana. Ammetto che non è facile rimescolare la composizione costituzionale di uno Stato quando questo è già formato, proprio perché come accennato il federalismo elvetico è figlio di un lungo processo storico, culturale, economico e politico.
Su come sia difficile tenere unita una realtà eterogenea sia a livello socio-economico che politico, viene dimostrato oggi in tutta la sua beffarda realtà l’Unione Europea e la sua unione monetaria. Beffarda realtà poiché se ricordo bene con l’unità politica e monetaria si mirava a dare stabilità interna e unità esterna al Continente. Oggi la realtà è di grande instabilità per l’inaffidabilità di alcuni Stati che hanno falsato i rispettivi bilanci per aderire all’unione monetaria, hanno nascosto difficoltà finanziarie e non realizzato investimenti previsti con i fondi di coesione stanziati dall’Unione Europea. Questo vale per la Grecia, ma ahinoi anche per l’Italia. Infatti, nonostante l’aiuto allo sviluppo con le casse del Mezzogiorno, i fondi europei di coesione di aiuto agli investimenti, la stessa unità e stabilità interna della Penisola non è data. Le cifre socio-economiche e le desolanti dimostrazioni dell’eufemistico mancato utilizzo dei fondi d’investimento – che di tanto in tanto “Striscia la notizia” dà ampia rilevanza mediatica – palesano i limiti di un sistema politico che non rende responsabili e accountable gli amministratori locali.
In un’antologia Garzanti, Klaus Davi ha raccolto il meglio (e il peggio) dei giudizi sul Belpaese apparsi sui media stranieri. A cominciare dalla proverbiale diffidenza nei confronti di tasse e regole edilizie. Ho deciso arbitrariamente di prenderne due.
«Povera Italia! Dopo gli scandali che accomunano politici, personaggi dello sport, della tv, manager e veline, la Parmalat, un governatore della Banca d’Italia vergognoso, una corruzione diffusa a macchia d’olio, un principe ereditario malato di sesso e avido, come ricompensa arriva addirittura anche il Mondiale di calcio! Sembra che basti questo per dimenticare tutto. Mastella che vuole l’amnistia, Cossiga che consiglia ai giocatori indagati per scommesse di andare in tribunale e dire ai giudici “Leccami il culo!”. Come si è ridotta l’Italia! Quella dell’amnistia sembra una barzelletta, ma è vera! Noi tedeschi non possiamo capire, non abbiamo l’elasticità di pensiero tipica degli italiani e non capiamo che con il calcio, in Italia, non si scherza: a pagina 19 di “Repubblica”, ecco l’articolo, il ministro della Giustizia chiede un atto di clemenza. Una cosa incredibile, per noi tedeschi. Ma non c’è da stupirsi: se un italiano ha problemi per evasione fiscale o abusivismo edilizio, non deve preoccuparsi, prima o poi arriverà dal governo un condono, un’amnistia che risolve ogni cosa. Regolarmente gli italiani vengono criticati per lo scarso senso della cittadinanza. Tuttavia si tende a dimenticare che i cittadini sono sovente trattati male dalle istituzioni: ogniqualvolta si rivolgono agli sportelli statali per registrare una nuova auto, per prolungare un permesso di soggiorno e denunciare semplicemente un furto sanno già che si stanno trasformando in un misero numero che finisce nella giungla dei casi irrisolti e dimenticati.»
Questo lo ha scritto sulla rivista tedesca Die Zeit il 13 luglio 2006 Petra Reski, autrice del libro “Von Kamen nach Corleone” che racconta degli intrecci mafiosi che legano l’Italia agli omicidi di Duisburg.
La seconda è triste e amareggiante per la sua mortale attualità. «In Italia, paese delle tragedie annunciate e dell’illegalità elevata a norma, come ogni inverno, ogni volta che piove si verificano centinaia di smottamenti». Lo ha scritto Iñigo Dominguez su El Diario Montañes nel febbraio 2010, e oggi constatiamo come la sua brutale insolenza trovi conferma nella realtà dei fatti.
È sempre difficile giudicare con gli occhi degli altri, poiché non si conoscono tutti i retroscena e si viene influenzati da pregiudizi e opinioni mediate. Ma il fatto di vivere vicini e di condividere cultura e storia lungo la frontiera tra Ticino e Lombardia, ci permette di meglio comprendere le dinamiche e cercare di trovare il bandolo della matassa.
È per questo che da attenti osservatori, senza velleità moralizzanti o paternalistiche, vediamo un’Italia confusa e un po’ schiava di un sistema politico assai complesso e vetusto, incapace di rendere responsabili e accountable gli amministratori locali. Se la delega arriva dall’alto, senza necessariamente mettere i mezzi a disposizione, è ovvio che il sistema si inceppi.
Oggi lo Stato, quale esso sia, deve rispondere a sfide importanti quali: la stabilità finanziaria, il finanziamento dello stato sociale o welfare, garantire la sicurezza e la certezza del diritto, offrire servizi pubblici di qualità e un’educazione adeguata alle sfide future.
In Svizzera e in particolare in Ticino non siamo perfetti, perché nessuno è contento di pagare le imposte e le tasse, ma se il sistema politico e amministrativo risponde in prima persona delle sue responsabilità, allora puoi misurare il valore del tuo contributo fiscale e apprezzarne le sue ricadute locali, cantonali e nazionali. Questo permette il federalismo, che riconosce pure la componente perequativa tra i Cantoni con differenti forze finanziarie, ma dove ognuno porta la responsabilità e non può delegare la colpa della sua inefficienza.
Ritornando alle questioni di frontiera, oggi si registrano alcuni problemi legati alla fiscalità applicata in Svizzera, agli Accordi bilaterali e sui ristorni dei frontalieri, cui si aggiungono blacklist e gli scudi fiscali applicati dal ministro di economia e finanze Giulio Tremonti. Con il congelamento di metà dei ristorni che annualmente il Ticino versa all’Italia, ma che l’Italia versa a Provincie e Regioni solo dopo due-tre anni, abbiamo voluto dare un segnale ai centri di potere romani e bernesi, affinché finalmente si prenda coscienza di un territorio transfrontaliero attivo e che ha comuni interessi a svilupparsi. Qualcuno ha sollevato dubbi sulla legalità di tale decisione, ma ribatto come non siano stati legali ricorrenti impieghi di tali riversamenti, finalizzati unicamente agli investimenti infrastrutturali. Cose spicciole, che non portano molto alla risoluzione del problema di territorio, che invece vorremmo capace di offrire infrastrutture transfrontaliere mai completate su lato italiano.
Attendiamo fiduciosi che le rispettive delegazioni, in cui abbiamo chiesto possano partecipare rappresentanti del territorio insubrico, si seggano al tavolo delle trattative per giungere ad una soluzione e allo svecchiamento di accordi bilaterali e convenzioni ormai datate. L’obiettivo è di trovare soluzioni che siano win-win, ossia che offrano risposte e soddisfazioni ad entrambi i lati della frontiera.
Certo, avessero le Province competenze pari ai Cantoni svizzeri, buona parte delle questioni le avremmo già risolte. È dunque giunto il tempo di dimostrarci vicini; tra Regioni, Province e Cantone Ticino lo stiamo dimostrando, ora desideriamo che anche a Roma e a Berna si scrollino di dosso una passività che nuoce ai rapporti transfrontalieri tra cittadini e politici di due Paesi che tutto sommato si sono sempre stimati e hanno sempre collaborato.
Anzi, per venire alla provocazione – fatta oggi da alcuni relatori e che raccolgo – il fatto che Milano sia storicamente la seconda più antica rappresentanza diplomatica elvetica dopo Parigi, dimostra come il centro di interesse economico e sociale della capitale lombarda presso gli Svizzeri sia predominante, se non anche generatore dell’inizio dell’avventura Svizzera con la volontà di controllare i passi alpini e i commerci transalpini. Insomma, Milano e la Lombardia contano da oltre 700 anni nella Storia svizzera, l’Italia solo negli ultimi 150 anni.
Vi ringrazio.
6 novembre 2011, Morazzone VA
Intervento di Norman Gobbi, direttore del Dipartimento delle istituzioni e presidente Regio Insubrica