Opinione pubblicata nell’edizione di venerdì 21 febbraio 2020 del Corriere del Ticino
La definizione «libera circolazione» – introdotta con l’omonimo accordo tra la Svizzera e gli Stati dell’UE e dell’AELS dal 2002 (esteso in fasi successive) – ci fa pensare subito a qualcosa di positivo, di bello, perché evoca immediatamente il concetto di libertà. La libertà rappresenta certamente uno dei valori a cui la natura umana aspira, nonché uno dei concetti che la politica e i politici evocano a beneficio dei cittadini, consapevoli che rendere liberi significa permettere a ognuno di potersi esprimere e realizzare.
Ma se osserviamo quali sono i vantaggi reali per il cittadino svizzero di fronte all’Accordo di libera circolazione allora capiamo subito che la positività del termine si trasforma in qualcosa di negativo. Lo dico pensando a tutti gli aspetti correlati alla «libera circolazione». Ecco allora che vediamo entrare in Ticino quasi liberamente, appunto, decine di migliaia di lavoratori provenienti da una regione, la Lombardia (solo in minima parte anche dal Piemonte) che ha un potenziale enorme di forza lavoro. Lavoratori che – a causa delle grandi differenze sul costo della vita tra noi e l’Italia – possono anche essere pagati con salari molto inferiori rispetto a quelli che devono essere elargiti a chi vive in Svizzera per poter far fronte agli oneri qui imposti.
Non dobbiamo nasconderci dietro un dito: se storicamente i frontalieri rappresentavano una forza-lavoro soprattutto per il settore industriale, riuscendo a far crescere questo importante ramo economico ticinese nonostante la carenza di manodopera indigena, oggi sono sempre più occupati anche nel terziario. E qui – non ci sono se e ma che tengano – vanno in aperta concorrenza «sleale» (per i fattori indicati poc’anzi) con i lavoratori residenti in Ticino.
L’attività di un settore importante del Dipartimento delle istituzioni, che ho il piacere di dirigere, è confrontata tutti i giorni con una serie di azioni burocratiche di controllo molto onerose e che spesso – addirittura – vengono criticate da chi ancora non capisce i grossi limiti imposti dall’Accordo di libera circolazione tra Svizzera e Unione europea. Parlo in particolare del lavoro svolto dalla Sezione della popolazione, chiamata a concedere i permessi per i lavoratori stranieri (permesso G per i frontalieri, permesso B di dimora). Ma mi riferisco anche all’attività della polizia cantonale e delle polizie comunali, che devono effettuare controlli sul terreno per determinare, per esempio, l’effettiva presenza in Ticino di chi chiede un permesso di residenza per lavorare. Senza pensare, poi, alle verifiche e ai sopralluoghi indispensabili per scongiurare lavoro nero, caporalato, dumping salariale e chi più ne ha più ne metta, di competenza di un altro Dipartimento, il DFE. Oppure ai controlli contro potenziali abusi sulle assicurazioni sociali, di competenza del DSS.
Quindi il nostro Stato è chiamato in virtù di questi accordi a concedere una «libertà» che va a beneficio di cittadini non residenti, imponendo poi tutta una serie di contromisure per tentare a posteriori di non far pagare troppo a caro prezzo questa «libertà» ai suoi cittadini. Insomma: un mondo alla rovescia, giacché l’azione dello Stato deve sempre favorire, proteggere e far crescere nel benessere chi vive all’interno dei suoi confini. È quanto hanno sempre fatto i politici di questo nostro meraviglioso Paese prima di annacquare il buon senso e di svendere a ogni piè sospinto il patrimonio identitario della Svizzera. Sino al 2002 (ossia prima dell’inizio dell’entrata in vigore dell’Accordo sulla libera circolazione) il concetto di «libertà» applicato al mondo del lavoro favoriva in modo chiaro i residenti: le istanze economiche elvetiche esprimevano un’esigenza di mano d’opera straniera per carenza di addetti svizzeri e l’autorità concedeva tali permessi, controllando però ab initio la reale necessità per non togliere le opportunità ai cittadini svizzeri o qui residenti. Detto per inciso: negli ultimi vent’anni, con questo ribaltamento di sistema imposto dalla libera circolazione, il numero di funzionari statali attivi in questo contesto non è diminuito, bensì aumentato, generando quindi maggiori costi alla collettività.
Chi crede che la Svizzera non abbia la forza di ritornare a un regime che consideri prioritarie le nostre libertà piuttosto che quella di altri soggetti ha ormai perso quel bagaglio di valori che ha caratterizzato l’evoluzione storica del nostro Paese e che potrebbe proiettarci in un futuro ricco di sfide, di cambiamenti e, comunque, di opportunità. Non dico che costoro non vogliano bene alla Svizzera; penso che non facciano il bene della Svizzera e dei suoi cittadini.