Intervista a Matteo Cocchi pubblicata nell’edizione di lunedì 11 novembre 2019 del Corriere del Ticino
Tante soddisfazioni ma anche tante difficili decisioni da prendere, di quelle che fanno restare svegli di notte. Fare il comandante della polizia cantonale è un compito affascinante, soprattutto in anni come questi. Ne abbiamo parlato con il comandante Matteo Cocchi, in un’intervista in cui si parla davvero di tutto e di più.
Qualche settimana fa ha festeggiato i suoi primi otto anni alla testa della Cantonale. Otto anni sono tanti. Ha ancora la forza di andare avanti?
«L’energia e la voglia di fare sono le stesse del 1. ottobre 2011. È vero, otto anni sono tanti, ma i progetti restano molteplici e, soprattutto, si vedono i risultati. Sono dunque ancora a disposizione per questa avventura».
Anni in cui il Corpo è cresciuto. Gli effettivi ora sono sufficienti?
«La risposta del Governo è stata positiva e l’effettivo è stato adeguato secondo le nostre richieste. Ora il compito di chi dirige la Cantonale è rendere ancora più efficaci le forze a disposizione».
La polizia unica è la soluzione?
«Dell’assetto della polizia in Ticino si discute da moltissimi anni, e spesso si sente dire che non siamo pronti per un cambiamento di questo tipo. C’è un gruppo di lavoro che si è chinato sulla tematica e spero che le idee che ne usciranno potranno servire alle istituzioni per decidere quale strada prendere (o, perlomeno, impostare una situazione intermedia). Ma è un cambiamento che dovrà decidere la politica. A noi sul campo toccherà metterlo in pratica. Si può comunque dire che nei rapporti tra Cantonale e Comunali ci sono situazioni da migliorare, e riguardano soprattutto il coordinamento e le sovrapposizioni delle competenze. Prima o poi sarà necessario prendere una decisione chiara e netta».
Eliminando le Comunali, salterebbero anche i loro comandanti…
«È chiaro che determinate figure, e non solo quelle, andrebbero a scomparire. Ma ci sono progetti in Svizzera che hanno funzionato. Non fraintendetemi però, io non sono uno che dice necessariamente sì alla polizia unica. E, in ogni caso, non sarebbe una cosa da fare dall’oggi al domani».
Una parte dei cittadini riconosce alle polizie locali una conoscenza del territorio che magari la Cantonale non ha.
«In realtà la polizia di prossimità la fanno tutti, anche la Cantonale. Ma quando si parla dei rapporti tra Cantonale e Comunali credo sia necessario dire che in futuro occorrerà separare i compiti ed evitare i doppioni. Sapere cosa deve fare la Cantonale e cosa le Comunali. E assicurarsi che questi compiti vengano svolti da tutti in modo efficace, 365 giorni l’anno e 24 ore su 24».
Cambiamo tema. Come sono cambiati i giovani che si iscrivono alla scuola di polizia? C’è vocazione o c’è anche chi la prende come una via di fuga?
«Il Ticino dal punto di vista delle candidature è messo molto bene. Da noi i numeri non mancano. Ogni anno circa 300 giovani si annunciano per la scuola. Ad essere cambiata è la maturità dei candidati che superano tutta la selezione, infatti anche la loro esperienza di vita gioca un ruolo importante. Una volta la maggior parte degli agenti faceva la scuola subito dopo l’apprendistato. Oggi invece molti si iscrivono dopo aver percorso altre strade, magari creando una famiglia. Una maturità che si nota. C’è di sicuro chi tenta di entrare in polizia per ripiego, ma sono situazioni che poi si notano durante le selezioni. E sì, la vocazione c’è ancora».
E la Cantonale come è cambiata?
«È vista meglio rispetto al passato dentro e fuori dai nostri confini. Oggi è riconosciuta a livello svizzero come un’ottima polizia. Ci siamo impegnati molto in questo senso. Io per esempio sono vicepresidente della conferenza dei comandanti e rappresento la Svizzera nel gruppo Atlas (che raggruppa le forze speciali di polizia europee), così come diversi ufficiali sono attivi in gruppi di lavoro a livello nazionale. Ma poi, soprattutto, abbiamo dimostrato con diverse operazioni di essere capaci. Pensiamo all’inaugurazione della galleria di base del San Gottardo nel 2016: una dimostrazione d’efficienza e in cui siamo riusciti, per la prima volta, a condurre un’operazione tra due cantoni con un capo impiego unico».
Un tempo c’erano le correnti e le assunzioni/promozioni fatte con il manuale Cencelli.
«Non so come era prima. Io sono arrivato e ho tentato di instaurare un mio stile di condotta. Quel che ho sempre detto è che quando si parla di carriere non è corretto promuovere qualcuno in base all’appartenenza politica. Sono convinto che per il buon funzionamento dell’istituzione polizia, siano i meriti e le capacità a fare la differenza. In Cantonale il clima è buono. A me piace avere rapporti quotidiani con gli agenti e a volte esco in pattuglia con loro. Pur mantenendo la gerarchia, abbiamo accorciato la distanza tra vertici e base».
Gli agenti sono uomini (e donne) e possono sbagliare. Lei si comporta da «padre» attento e premuroso o è molto severo?
«Il mio compito è di comandare, e in molte situazioni occorre decidere in modo drastico. Quando è possibile cerco il dialogo. Quando la situazione è grave neppure si discute».
E dal lato umano che comandante ritiene di essere?
«Nel Corpo ci sono tanti uomini e donne, persone che vivono la loro vita, con alti e bassi come noi tutti. E capita che vi siano momenti di difficoltà. Ovviamente la giornata storta va capita, ammesso che non si superi il limite».
Ma l’agente rappresenta lo Stato. Occorre quindi inflessibilità, altrimenti il cittadino non riconosce più l’autorità della polizia.
«L’agente che sgarra non la fa franca. Faccio un semplice esempio: se inciampa nelle regole della circolazione verrà “multato” non una, ma più volte. Al Comando arriva la segnalazione su quanto accaduto, viene aperto un procedimento disciplinare e, oltre alla multa, possono quindi esserci ulteriori conseguenze. Proprio perché l’agente deve essere un esempio, siamo più rigorosi».
Però ci sono stati anche poliziotti colti in fallo e poi riassunti.
«Dissento. Alla Cantonale ci sono stati licenziamenti per fatti gravi. Non tocca a me aprire un discorso sulla successiva riassunzione da parte di alcune Comunali. Non mi resta che constatare che toccherebbe semmai a quelle autorità di nomina spiegare la loro scelta (che, convengo, risulta poco comprensibile)».
L’era dei social network pone un problema in più?
«Sì, specie quando a usare i social sono le generazioni che non sono cresciute con questo strumento. Vietare Facebook agli agenti? Non credo sia la soluzione. Però devono ricordarsi di comportarsi bene online, esattamene come nella vita vera».