Articolo pubblicato nell’edizione di martedì 19 gennaio 2021 de La Regione
Tre interventi al giorno della polizia solo la punta dell’iceberg.
Le strategie del Cantone.
Terapia obbligatoria e bracciale ai violenti
Ogni due settimane una donna viene uccisa in Svizzera tra le mura domestiche. Cifre allarmanti che purtroppo non rendono giustizia alla reale piaga della violenza domestica: la polizia interviene in Ticino in media ben tre volte al giorno. Gli agenti, nel 2019, hanno allontanato dal contesto familiare ben 183 uomini. In qualche raro caso ad alzare le mani sono le donne, ma di regola a subire botte, insulti, umiliazioni, minacce, violenze sessuali sono madri, mogli, compagne, sorelle. La violenza coniugale uccide più del tabacco e della strada. “Sono cifre elevate, eppure stiamo parlando solo della punta dell’iceberg di una violenza davvero molto più diffusa, a emergere attraverso i dati di polizia sono di regola circa un terzo dei casi effettivi”, spiega Chiara Orelli Vassere. Da poco meno di un anno è la coordinatrice istituzionale per la violenza domestica al Dipartimento delle istituzioni e sta lavorando a un piano di azione cantonale.
L’obiettivo è individuare un ventaglio di misure per prevenire, sensibilizzare e contrastare questa piaga sociale a più livelli, attraverso un lavoro collettivo, creando una rete coesa e funzionale che sappia dare risposte tempestive e adeguate. La prima fase di mappatura quantitativa e qualitativa della problematica è quasi terminata. C’è insomma una prima fotografia per definire reali bisogni ed effettive necessità di intervento. Molto è stato fatto, non si parte certo da zero, molto si deve ancora fare.
Più formazione per individuare le vittime
Emergono diverse piste, poi andranno fatte delle scelte: “La formazione specifica, ad esempio, è importante. Soprattutto i punti di primo contatto con le vittime, decisivi per l’individuazione del maltrattamento e la sua successiva sanzione (ad esempio in ambito sanitario, ma anche giudiziario) devono saper riconoscere i segnali di una violenza che non di rado è anche, o esclusivamente, psicologica; occorrerà verificare l’adeguatezza di protocolli di presa a carico, pensare a figure formate e di riferimento per la tematica all’interno delle strutture. Ne stiamo discutendo con un gruppo di esperti in cui ci sono rappresentati anche i medici di famiglia e dell’Ente ospedaliero cantonale e della composita realtà della giustizia”, precisa Orelli.
Più giovani sotto stress
Altro punto, le statistiche. “Sarà utile avere dati condivisi tra i vari attori, affiancando ai dati oggi disponibili quelli deducibili dall’importante lavoro svolto ad esempio dai consultori familiari, da Telefono amico, dal 147 di Pro Juventute, da ulteriori fonti”. “Anche i giovani saranno al centro della nostra attenzione”, aggiunge Orelli. Proprio i giovani, durante questa seconda ondata pandemica stanno mostrando una maggiore insofferenza. “Registriamo un aumento dei casi di conflittualità in famiglia che coinvolgono i giovani, sia tra genitori e figli, sia nelle giovani coppie, dove emergono situazioni di sopraffazione e prevaricazione. Gli osservatori territoriali segnalano con una certa frequenza situazioni di controllo ossessivo, ad esempio del cellulare e degli spostamenti del partner, che rischiano di degenerare ed esplodere in violenze. Per contrastare questa tendenza sarebbero opportune ad esempio azioni di sensibilizzazione a scuola su modelli di relazione senza violenza. Una sorta di contronarrazione da proporre a contrasto di modelli relazionali violenti spesso veicolati da vettori culturali diffusi tra i giovanissimi”.
Il focus ovviamente sarà anche sulle vittime, se la presa a carico in urgenza è spesso efficace, per Orelli, andrebbe rafforzato un percorso che continui nel tempo, una volta superata la prima fase emergenziale.
Il nuovo piano entro l’autunno
Insomma davvero tanta carne al fuoco. Un piano articolato sta prendendo corpo, un passo dovuto per attuare la Convenzione di Istanbul (dal 2018 Svizzera è in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa su prevenzione e lotta contro la violenza sulle donne e violenza domestica). Gli obiettivi sono quattro: prevenire, proteggere le vittime, perseguire gli autori, avere politiche coordinate. “Per l’autunno contiamo di presentare al Governo un piano cantonale con misure concrete, sostenibili, condivise e in sintonia sul piano nazionale”, stima Frida Andreotti, responsabile della Divisione giustizia.
Purtroppo si sa che violenza chiama violenza. I danni sono esponenziali. Quanti minori assistono impotenti e rischiano di assorbire una cultura della violenza che li segnerà per la vita, trasformandoli, magari, in adulti che menano le mani. Gli effetti a cascata sono enormi. Infatti Confederazione e Cantoni sono corsi ai ripari con una serie di interventi.
Sul piano federale si profila ad esempio una misura per accrescere la difesa delle vittime: l’applicazione del bracciale (o cavigliera) per la sorveglianza elettronica a distanza dell’autore di violenza domestica. Scatterà dal 1° gennaio 2022. “Si valuteranno con i partner della rete, in primis l’Autorità che dovrà prendere le decisioni, i criteri sia per una sorveglianza attiva con la possibilità di intervento immediato in caso di urgenza, sia passiva, con verifiche posticipate, del rispetto delle interdizioni imposte, ritenuto che l’applicazione della sorveglianza elettronica va adeguatamente preparata sia con la vittime che con l’autore”, spiega Siva Steiner, responsabile dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, che dal 2011 assicura sostegno e consulenza in materia di violenza domestica e dal 2014 gestisce camere d’emergenza per chi, dopo aver agito con violenza, viene allontanato dal proprio domicilio dalla polizia.
Le novità in ambito giuridico non sono finite. Da luglio scorso, grazie a nuove disposizioni del Codice penale svizzero la decisione sulla prosecuzione del procedimento non dipende più esclusivamente dalla volontà della vittima, come era in precedenza. Altra importante novità. Sempre da luglio scorso, il procuratore pubblico può ordinare – sospendendo il procedimento per 6 mesi – la partecipazione dell’imputato (in caso di lesioni semplici, minacce) a un programma di prevenzione alla violenza. “Fino ad ora dal Ministero pubblico non abbiamo ancora ricevuto nessun mandato, tenuto conto che va prevista una procedura che prende del tempo dall’apertura del procedimento”, precisa Steiner. Il suo servizio è pronto e ben rodato: nel 2019, ha preso contatto con 106 persone segnalate dalla polizia; dopo il primo colloquio ne ha seguite 91. “L’obbligo è un buon strumento per garantire un contatto con la persona sotto procedimento. La sfida è trasformare questa costrizione in opportunità per riconoscere e possibilmente modificare comportamenti violenti”. Sei mesi non sono certo tanti per cambiare atteggiamenti radicati magari da decenni.
C’è chi ce la fa e chi ci ricasca
“Sono però sufficienti per porre le basi di un cambiamento, proponendo sostegni e strumenti per rinunciare alla violenza”. Concretamente vengono proposti quattro programmi, di cui uno con un approccio cognitivo comportamentale: “Sono 12 incontri di gruppo, a frequenza quindicinale, spalmati su sei mesi, dove si discute di violenza domestica da vari punti di vista, dalle sue cause alle sue conseguenze, affrontando dinamiche, aspetti sociali e culturali, aiutando le persone a gestire le emozioni, la rabbia. Alla fine del percorso è prevista una valutazione per il Ministero pubblico. Vediamo situazioni davvero molto diverse e usiamo strategie differenziate in collaborazione con altri partner. Chi riconosce di avere un problema e vuole cambiare può seguire ad esempio un percorso terapeutico con uno specialista esterno. Altri necessitano aiuti specializzati per risolvere situazioni di dipendenza o problematiche sociali”. L’esperto non vuole parlare di profili, ma di fattori di rischio personali (tendenza all’impulsività, disturbi psichici, dipendenze … ) e/o ambientali (problemi economici, relazionali, familiari, sociali…) che inducono le persone a scegliere la violenza come risposta ai conflitti in famiglia. La sfida è motivare le persone a cambiare, trovando nuovi strumenti. Ma quanto sono efficaci questi approcci, si evitano le recidive? Steiner precisa che non ci sono statistiche in Ticino. Per alcuni il sostegno funziona e mostrano via via comportamenti differenti, altri invece vengono risegnalati dalla polizia al suo servizio: “Soprattutto in momenti di crisi, vecchi schemi di comportamento possono riapparire”, conclude Steiner.