Articolo pubblicato nell’edizione di mercoledì 10 ottobre 2018 de La Regione
Infiltrazioni mafiose, Nando Dalla Chiesa: “La vicinanza con la Lombardia espone maggiormente”. Dopo l’interpellanza di Romano sulle inchieste coordinate da Berna, parla lo specialista italiano.
Non è certo passata inosservata la recente interpellanza al Consiglio federale del deputato al Nazionale del Ppd Marco Romano. Le critiche ticinesi alla decisione, nel 2016, della Polizia federale di centralizzare a Berna il coordinamento delle inchieste sulle mafie, oltre che sul terrorismo, trovano infatti appoggio anche da parte di un noto specialista italiano: Fernando (Nando) Dalla Chiesa, figlio del generale dei carabinieri Carlo Alberto, ucciso da Cosa nostra nel 1982. “Se fossi responsabile in Svizzera metterei innanzitutto il Ticino sotto la lente”, afferma in un’intervista, pubblicata ieri dal quotidiano romando “Le Temps”, il fondatore e direttore dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università degli Studi di Milano. Lo farebbe, spiega Nando Dalla Chiesa, perché “il Ticino è chiaramente più esposto degli altri cantoni alle mafie italiane e straniere basate nel Nord dell’Italia, a causa della sua frontiera con la Lombardia, la lingua e i contatti sul posto”. Dalla Chiesa mette in guardia: dalla Lombardia premono non soltanto le mafie italiane, ’ndrangheta in primis, ma anche quelle estere: albanese (“dominante sul mercato degli stupefacenti”), rumena (specializzata nei furti con scasso), cinese (concentrata sui giochi d’azzardo e le contraffazioni) e ancora russa, nigeriana, nordafricana, sudamericana, che hanno scelto la regione di confine come centro nevralgico delle loro attività. “Per il momento – dice Dalla Chiesa – le inchieste condotte in Italia sul crimine organizzato straniero non risalgono alla Svizzera, contrariamente a quelle concernenti la ’ndrangheta o Cosa nostra. Ma la globalizzazione delle mafie è un processo in corso”. Difficile prevedere se queste mafie possano presto emergere anche in Ticino, aggiunge Dalla Chiesa, il cui Osservatorio ha da poco pubblicato il suo “Quarto rapporto sulle aree settentrionali” destinato alla Commissione parlamentare antimafia italiana. Dipende anche da “come il problema sarà impugnato in Italia dal nuovo governo, e con quali effetti”. Quel che è certo è che la Svizzera è “interessante”: “Possiede grandi quantità di liquidità e membri delle comunità interessate vi si sono già stabiliti. Lo è pure per il riciclaggio del denaro sporco”. Secondo il professore, attualmente “il pericolo del terrorismo è esagerato”, mentre “quello delle mafie è minimizzato”. Nando Dalla Chiesa lancia anche una critica alle autorità svizzere. Esse “collaborano con i loro omologhi italiani. Soltanto, i nostri investigatori sono estremamente ben preparati per affrontare il problema, il che non è sempre il caso da voi in Svizzera. Questo può essere frustrante per i nostri esperti”.
Per Gobbi bilancio in chiaroscuro. Pasi: le inchieste vanno coordinate dove sono commessi i reati spia.
A un paio d’anni dalla centralizzazione a Berna, decisa dalla Polizia federale, del coordinamento delle inchieste sulla criminalità organizzata, il bilancio per quanto concerne il Ticino è in chiaroscuro, stando alle parole del consigliere di Stato Norman Gobbi. “Da un lato è positivo, perché si sono visti miglioramenti sulla capacità di lavorare insieme e dialogare – dice alla ‘Regione’ il direttore del Dipartimento istituzioni –. Dal punto di vista dei risultati, però, non siamo pienamente soddisfatti”. Il motivo è che “mancano quella struttura, quel modus operandi necessari per combattere le organizzazioni criminali. Vale a dire andare fino in fondo su determinate segnalazioni, che anche noi facciamo alle autorità federali”. Detta altrimenti: “Talvolta segnaliamo operazioni un po’ strane, ma poi non vediamo molta voglia di andare fino in fondo”. Secondo Gobbi, la causa però sta nel manico. Cioè nella “mancanza di strumenti legislativi. Per questo abbiamo sempre sostenuto le rivendicazioni del procuratore generale della Confederazione Michael Lauber sul rafforzare determinati punti del Codice penale svizzero”. Soprattutto il “poter classificare, definire meglio le organizzazioni criminali, e dimostrare l’affiliazione dei loro membri, anche in forma passiva”. Di concerto con la possibilità di “eseguire importanti sequestri di beni, finanziari e immobiliari. Finché non gli si tolgono le risorse, per noi diventa difficile contrastarli”, chiosa Gobbi.
La centralizzazione a Berna del coordinamento delle inchieste ha interessato qualche anno fa anche il Ministero pubblico della Confederazione (Mpc). “Sulla base della mia esperienza di magistrato – afferma, da noi interpellato, Pierluigi Pasi, procuratore federale dal 2003 al 2015 (dal 2004 capo dell’antenna luganese dell’Mpc) –, ho sempre sostenuto che le indagini devono essere condotte e coordinate laddove si manifestano i reati cosiddetti spia, illeciti che possono indicare la presenza su quel territorio dell’attività di un’organizzazione criminale, per esempio piccole estorsioni o incendi dolosi”. Ragion per cui “non posso che condividere le perplessità di Marco Romano e di altri deputati federali”. Per Pasi “bisognerebbe fare un’analisi approfondita – basata su dati oggettivi, anche statistici, e che comprenda tutti gli attori in campo, federali e cantonali – per verificare i livelli di collaborazione e per individuare punti problematici ed eventuali difetti sistemici dell’attuale organizzazione dell’apparato di contrasto, che sembrerebbe non dare i frutti sperati in termini di efficacia. Un’analisi che dovrebbe riguardare pure i risultati di quello che si definisce il contrasto patrimoniale alle organizzazioni criminali”.