Dal Corriere del Ticino | La ditta fantasma e i permessi facili
Tra documenti contraffatti e presunte mazzette: ecco i retroscena della bufera che sta scuotendo il Cantone – Il numero degli arrestati è salito a sei: tra loro un funzionario e due ex dipendenti dell’Ufficio migrazione
Lo spettro della corruzione è tornato ad aggirarsi per i corridoi dell’Amministrazione cantonale. È questa l’immagine evocata dai più a seguito dell’ondata di arresti che sta scuotendo le mura dei palazzi governativi. A finire in manette sono stati un funzionario 28.enne e due ex collaboratrici dell’Ufficio della migrazione – 23 e 28 anni –, due fratelli originari del Kosovo – un 27.enne e un 25.enne già titolare di un’impresa edile fallita –, un cittadino turco di 27 anni. E così, a 16 anni dallo scoppio della controversa vicenda dei «permessi facili» – venuta a galla nel 2001 sollevando una vera e propria bufera nell’Amministrazione cantonale – un altro scandalo giudiziario per qualche verso analogo ha investito il Dipartimento delle istituzioni. I primi quattro fermi sono scattati martedì in due momenti distinti, su ordine del sostituto procuratore generale Antonio Perugini. A finire sotto torchio in mattinata sono stati i due fratelli. Nel pomeriggio il turno è toccato a due insospettabili: il 28.enne impiegato dello Stato (di origini italiane, era stato assunto nel 2010 quando ancora non aveva il passaporto svizzero e a capo del Dipartimento istituzioni vi era Luigi Pedrazzini) e la ex collega, pure di 28 anni, che fino al 2015 risultava inserita nei ranghi del Cantone ma che, in seguito a un licenziamento per questioni disciplinari indipendenti dall’inchiesta, era passata alle dipendenze di uno studio legale. Infine ieri è stata la volta dell’altra ex funzionaria (cittadina svizzera, aveva lavorato un anno come stagista per il Cantone ed era stata assunta quando alla guida del Dipartimento era subentrato Norman Gobbi) e del turco. Agli inquirenti gli arrestati hanno fornito la propria versione sui rimproveri avanzati. Lo hanno fatto chi respingendo gli addebiti (l’ex funzionaria 28.enne) chi fornendo elementi per far luce su una vicenda che sta creando, e creerà, non poco imbarazzo.
L’impresa paravento
La voce che qualcosa di grosso stesse covando sotto le ceneri di un’apparente tranquillità aveva cominciato a circolare nei corridoi di Palazzo di giustizia e Palazzo delle Orsoline ad inizio settimana. A imporre il riserbo e a rimandare la deflagrazione erano state le esigenze istruttorie. Era insomma necessario attendere che il cerchio si chiudesse su tutti e sei i sospettati per non rovinare un’indagine nata mesi fa su segnalazione delle autorità federali e della stessa Sezione della popolazione.
Ma come sono andate le cose? Tutto ruota intorno a un’impresa di costruzioni, la Aliu Big Team, fondata nel 2014 e fallita nel febbraio dell’anno scorso. Un’impresa di facciata, che non sarebbe mai stata attiva e dietro cui si celerebbero, secondo le ipotesi accusatorie, un traffico di esseri umani e il giro di permessi facili. Titolare della SAGL bellinzonese era il 25.enne, già arrestato in Kosovo tempo fa e su cui pendeva un mandato di cattura. Ebbene, per gli inquirenti, l’uomo avrebbe brigato per far ottenere a una ventina di persone, in cambio di denaro, un permesso di dimora di tipo B. In che modo? Appoggiandosi sulla «collaborazione» del fratello, ma soprattutto del funzionario 28.enne (prelevato direttamente negli uffici dell’Amministrazione cantonale) e delle ex colleghe. E non è escluso che per creare o modificare i documenti necessari, gli indagati abbiano sottratto materiale sensibile (carta apposita – i cosiddetti fogli di sicurezza – e copertine che venivano consegnate al cittadino turco). Compito di polizia cantonale e magistratura è ora quello di stabilire l’entità degli illeciti facendo chiarezza sul numero di persone che hanno beneficiato di un permesso facile, sui passaggi di denaro tra i vari attori coinvolti e sui rispettivi moventi. Certo è che chi ha ottenuto un permesso facile a un prezzo di qualche migliaio di euro verrà interrogato, dopodiché scatterà l’annullamento del documento e quindi l’obbligo di lasciare il Paese.
L’INTERVISTA – NORMAN GOBBI «Responsabile come capo del Dipartimento che ci mette la faccia con il sole o la tempesta»
Lei «deplora e condanna l’accaduto». Ma queste sembrano un po’ frasi fatte. Cosa si sente di aggiungere, dato che, una volta ancora l’Amministrazione cantonale è nell’occhio del ciclone?
«Ma il caos, in questo caso, non sussiste. È infatti stata la direzione dell’Ufficio della migrazione a procedere con le verifiche iniziali che hanno poi portato alla segnalazione alla polizia e al Ministero pubblico, oltre che naturalmente alla direzione del mio Dipartimento. Qui parliamo della fiducia che deve vigere tra istituzioni e cittadino e che invece è stata lesa, se non distrutta. Il tutto in un settore come quello dei permessi dove non si prestano servizi ma diritti a degli stranieri di risiedere e di lavorare sul nostro territorio. Il fatto che ad essere coinvolti siano stati dei funzionari, evidentemente mi fa arrabbiare, per usare un eufemismo. E in tal senso ho inviato un e-mail interna alla Sezione della popolazione nella quale mi sono detto furibondo. Questa fiducia, che è sacra, deve sempre valere. Il caso in questione purtroppo vanifica un po’ quel lavoro di durezza nell’ambito dei controlli imposti a livello di migrazione. Allo stesso tempo ci ha tuttavia permesso di imparare, tant’è che nell’ambito della riorganizzazione del relativo Ufficio sono già stati introdotti elementi figli di questa esperienza».
Il settore dei permessi in passato è stato oggetto di inchieste penali, tutti ricordiamo l’affaire «permessi facili». Cambia la direzione politica del Dipartimento ma restano le disfunzioni che sfociano in casi come quelli oggi sotto gli occhi di tutti ticinesi?
«Serve innanzitutto fare una distinzione forte. Nel 2001 era la testa dell’Ufficio dei permessi ad avere un problema, mentre qui parliamo di due singoli funzionari. Ed evidentemente come in tutte le organizzazioni in cui ci sono degli esseri umani e non delle macchine a operare il rischio zero non esiste, e dobbiamo esserne coscienti. Quando ho assunto la direzione del Dipartimento, nella mia analisi dei pericoli ho riconosciuto il rischio di tali fattispecie. Era quindi importante mettere in atto diverse misure preventive. Cosa che abbiamo fatto da un lato con l’avvicendamento alla direzione della Sezione alla popolazione, che non nascondo ha agevolato l’emersione del tutto, e dall’altro con il senso del dovere della responsabile dell’Ufficio migrazioni Morena Antonini che ha permesso l’avvio di questa inchiesta».
In passato è già accaduto che al consigliere di Stato di riferimento fosse imputata una «responsabilità politica oggettiva» per casi delicati. Lei sente d’avere delle responsabilità?
«Sento di avere la responsabilità in quanto capo del Dipartimento, il quale mette la faccia quando c’è il sole ma anche quando ci sono vento e tempesta contrari. Mi assumo quindi questo onere, delegandone però una parte alla responsabilità individuale delle persone coinvolte. Sono infatti loro ad aver agito in malafede stando alle prime ipotesi di reato».
Il leghista, lei ce lo insegna, di fronte a questi casi «s’incazza». Neppure con un leghista alle Istituzioni c’è garanzia di una condotta irreprensibile?
«È vero, il Dipartimento non è esente da casi simili. Ma va fatta una precisazione: il collaboratore e l’ex collaboratrice sono stati assunti nel 2009 come ausiliari e nominati nel 2010, con il primo che ai tempi era ancora cittadino italiano. Io sono alla testa delle Istituzioni dal 2011 e una delle prime misure che ho introdotto prevede che in seno alla Sezione della popolazione vengano nominati unicamente cittadini svizzeri».
La seconda ex collaboratrice arrestata ieri sera però è svizzera.
«Sì, ed è stata assunta per un anno sotto la mia direzione. Ma qui ribadisco come a fare stato debba essere la responsabilità dell’individuo a fronte della fiducia in lui riposta».
Ma c’è un legame con il caso Pulice, l’ex killer della ‘ndrangheta pentito?
«No, le due fattispecie non sono da ricollegare».
Cambierà il suo modo di interagire con i funzionari?
«Vige sempre il principio della fiducia e fintanto che la stessa non è tradita deve essere data. Il fatto di aver riorganizzato l’Ufficio della migrazione servirà anche ad avere procedure migliori, in grado di evidenziare le criticità con determinati indicatori. Doppi controlli? Sui dossier delicati sarà la regola, ma dal momento che la Sezione evade circa 75.000 pratiche all’anno non sarebbe pensabile introdurli per una questione di risorse disponibili e finanziariamente parlando».
Vista la delicatezza non teme ora che vi sia un inquinamento delle prove?
«Il fatto che si sia operato nel silenzio, visto che l’inchiesta è partita nella primavera del 2016, dimostra come la direzione dell’Ufficio della migrazione e della Sezione della popolazione abbiano operato in modo trasparente e collaborativo con polizia e autorità inquirenti. A ciò vanno ricondotte e aggiunte le nuove misure interne attuate che sono certo permetteranno di evitare un inquinamento delle prove».
La sua condotta politica nel settore dei permessi è stata molto rigorosa, spesso anche drastica. Mentre Gobbi stringeva le viti, dalla porta accanto c’era però chi oliava un altro meccanismo. Il coperchio è stato tolto grazie a una segnalazione, ma la domanda è lecita. Quante volte la fanno franca questo genere di personaggi?
«Chiaramente, fatta la legge trovato l’inganno e ci sarà sempre qualcuno più furbo. Questa fattispecie dimostra però che se la macchina e i controlli funzionano i problemi vengono identificati così come i responsabili, per i quali si procede con le misure penali e amministrative del caso. E per il funzionario indagato ciò significa che al momento è pronta una richiesta di sospensione che va adottata dal Governo. Detto questo anche in ambito amministrativo vige la presunzione di innocenza».
(Articolo di Giovanni Mariconda, Massimo Solari e Gianni Righinetti)