Da Il Mattino della domenica | Verso la via dell’estremismo: come evitarlo?
Il terrore ha colpito ancora. È successo prima di Natale, tra le bancarelle di Berlino, e poi ancora a Instanbul, durante la notte di Capodanno. Quando ci stavamo preparando ad assaporare a pieno un momento di serenità con i nostri cari e i nostri amici, il terrore è entrato ancora una volta nelle nostre vite. Sotto forma di un camion catapultato a tutta velocità tra le bancarelle di un mercatino natalizio o in una raffica di spari all’interno di una discoteca. Ha portato via ghirlande di luci e alberi di Natale, ha fatto cadere a terra calici di vino. E con essi ha trascinato via molte, troppe vite umane.
Berlino. L’autore dell’attentato ai mercatini natalizi, dopo essere riuscito a farla franca in Germania, è stato casualmente fermato e ucciso da due poliziotti durante un controllo in Lombardia, a pochi chilometri dal confine. Come raccontano i quotidiani nei giorni seguenti, sembra che lo jihadista in questione abbia attraversato la frontiera franco-tedesca in bus e quella italo-francese in treno, giungendo infine a Milano.
Da migrante ad attentatore
Nei giorni seguenti l’attentato, si scopre come il passato dell’attentatore in effetti nasconda dei dettagli piuttosto inquietanti. Il tunisino Anis Amri era già stato in Italia per cinque anni, quasi tutti trascorsi dietro alle sbarre. Arrivato a Lampedusa nel febbraio del 2011 con un barcone, il giovane già maggiorenne si finge minorenne per approfittare di un’accoglienza più agevolata. Arrivato in un centro di accoglienza per minori si fa notare per il suo comportamento poco riconoscente: si lamenta per la qualità del cibo e per la lentezza delle autorità italiane, fino a minacciare e picchiare il custode del centro, dando in seguito fuoco con altri quattro tunisini ai materassi delle stanze. Questo lo porta alla detenzione, anch’essa segnata da un atteggiamento violento. Dopo il carcere, per il tunisino è richiesta l’espulsione, ma la Tunisia non riconoscendo il proprio cittadino blocca la procedura. Amri rimane quindi in Italia fino al 2015, quando decide di dirigersi verso la Germania, dove compirà un atto estremo.
Radicalizzazione e luoghi di culto
La radicalizzazione islamica torna agli onori di cronaca per l’attentato di Berlino, e ci riporta nella mente la seguente questione: come fare a sradicare l’estremismo, come individuare questi lupi vestiti da agnelli prima che sia troppo tardi, in una realtà politica nella quale è sempre più difficile controllare il movimento degli individui, e nella quale un terrorista ricercato internazionalmente può spostarsi indisturbato di nazione in nazione?
Per rispondere, spostiamoci in Svizzera. Nuovo fatto di cronaca, fortunatamente questa volta non si parla di attentato – ma delle sue potenziali premesse. Dopo una retata della polizia, l’attività nella moschea An’Nur di Winterthur viene sospesa. A far scaturire l’operazione, la frase di un imam: aveva esortato i fedeli durante un sermone a “uccidere i musulmani che non partecipano alla preghiera comune”. La moschea in questione aveva già la fama di essere luogo di radicalizzazione per giovani che volevano partire per combattere la guerra in Siria.
Com’è possibile sconfiggere la radicalizzazione eliminandola sul nascere, scovandola anche all’interno dei luoghi di culto? Che responsabilità hanno le comunità religiose al riguardo?
È chiaro che la moschea non è all’unico luogo d’incontro e di contatto, poiché i giovani possono essere arruolati facilmente via internet, o incontrarsi in un semplice bar. Le moschee possono però essere viste come luogo di passaggio di queste persone che, pur non essendo imam e quindi non predicando all’intera comunità, possono comunque esporre i loro pensieri estremisti e violenti in questo ambiente. Le comunità religiose, ma anche le associazioni culturali che sostengono finanziariamente questi luoghi di culto, devono quindi avere un compito attivo nella segnalazione di possibili casi di radicalizzazione.
La situazione in Ticino
Lo Stato ha il compito di vigilare in modo che sul proprio territorio non vi siano persone che possano mettere in pericolo la sicurezza interna ed esterna. Purtroppo queste persone possono essere presenti anche in Ticino, come ci ricorda la cronaca: proprio qualche mese fa è iniziato in Italia il processo per Abderrahim Moutaharrik, il kickboxer che si allenava in una palestra del Luganese.
Spesso scovare persone potenzialmente pericolose è un compito complesso, poiché è difficile comprendere quando questi giovani radicalizzati possono rappresentare un pericolo. Proprio per questo è importante che nei luoghi d’incontro, come ad esempio nelle moschee, vi sia la volontà di monitorare delle possibili devianze estremiste. È inoltre importante risalire alla fonte del problema, e individuare i reclutatori che portano i giovani verso la via del radicalismo e della violenza.
Si tratta quindi di lavorare su più livelli, come Stato ma anche come cittadini e come comunità religiose che vogliono essere parte integrata del nostro Paese. Ognuno deve impegnarsi nel segnalare un certo tipo di atteggiamento: a scuola, al lavoro, all’interno dei luoghi di culto. In particolar modo, è importante che questo sia fatto per chi entra e prende la parola nelle moschee, e nella selezione degli imam, che hanno un potere e un’influenza maggiore sulle scelte dei fedeli.
Ci sono comunità che fanno un lavoro utile di prevenzione, c’è chi invece potrebbe fare di più o che addirittura promuove idee estreme. In Svizzera il problema non è ancora così radicato come in altri Stati confinanti, ma è importante monitorare la situazione in modo che il fenomeno rimanga circoscritto. Dobbiamo togliere la pelle d’agnello ai lupi, ognuno di noi può contribuire. Per una maggiore sicurezza nel nostro Cantone e in Svizzera!
NORMAN GOBBI, CONSIGLIERE DI STATO E DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DELLE ISTITUZIONI