Gentili Signore, Egregi Signori, La giornata cantonale dell’integrazione 2012 propone un momento di riflessione sui fenomeni migratori, in particolare quelli legati al mondo del lavoro e al processo di integrazione, quale strumento di valorizzazione delle potenzialità professionali e formative dei migranti.
La nostra terra, il Ticino, è stata per molti secoli terra di emigrazione, perché – per dirla con Plinio Martini – i nostri antenati sacrificavano “una giornata di lavoro per un cavagno di radici dolci, così le chiamavano; penso fossero radici di felci e di raperonzoli, buone per non morire di fame durante l’interminabile primavera”. Una situazione che toccava in maniera diversa il nostro territorio. Il Mendrisiotto visse un’emigrazione artistica e fu terra di immigrazione di braccianti agricoli, nel XIX ed inizio XX secolo. Le valli prealpine del Sottoceneri e alpine del Sopraceneri furono molto più toccate, poiché i forti pendii e gli scarsi campi arabili erano la condanna all’emigrazione fuori valle.
Un’emigrazione che portò i nostri antenati in diverse destinazioni: Milano, la Lombardia, la penisola italica, Parigi (in Francia, come solevano dire), la Britannia, la California, l’Australia. Spesso l’emigrazione era temporanea, quasi stagionale. Gli abitanti del Sopraceneri andavano in Italia in inverno, mentre quelli del Sottoceneri approfittavano dell’estate. Dalla Leventina arrivavano mercanti di bestiame e formaggi, osti, caffettieri e lattai e andavano soprattutto in Lombardia. I marronai, fruttivendoli, cioccolatai e i camerieri arrivavano dalla valle di Blenio; i primi andavano a Milano, Genova e Firenze, i secondi in Lombardia, come gli albergatori e cuochi provenienti dal Locarnese. Negozianti, ramai (i famosi magnan) dal Luganese; muratori, marmisti, carbonai dal Mendrisiotto e mercanti di legna dalla Valle di Muggio. Sempre citando lo scrittore valmaggese, che meglio di tutti seppe dare un’immagini a noi contemporanei di cosa fu l’emigrazione e “la vita grama” dei nostri territori, è stata “la California che ha svuotato le nostre regioni: dal 1850 in poi la parte alta della Valmaggia ha perduto il settanta per cento dei suoi abitanti. E così l’Onsernone, la Verzasca, le Centovalli, la Valcolla, e via dicendo” (Martini).
Il Ticino e in particolari le sue valli furono terra di emigrazione, quando dalle rocce cresceva poco fieno e la segale e le castagne erano insufficienti per sfamare tutti. Poi in queste stesse Valli vi fu l’inversione con l’arrivo dello sfruttamento idroelettrico delle importanti risorse idriche delle valli sopracenerine. E il destino volle che proprio queste terre, che furono incapaci di sfamare i propri figli, seppero offrire opportunità di lavoro a nuovi migranti. Negli Anni Cinquanta, grazie alle grandi opere delle Partnerwerke, migliaia di persone di origine italiana emigrarono, lavorarono, abitarono e – ahinoi – talvolta perirono nelle nostre alte vallate. Parallelamente si svilupparono le attività industriali, sempre in valle, con le Officine del Gottardo (poi Lonza) di Bodio, la Tenconi di Airolo, la Tensol e la Piottawerke di Piotta, la Monteforno di Giornico. Realtà industriali che diedero lavoro a migliaia di operai ticinesi, svizzeri, bergamaschi, emiliani, sardi, umbri, calabresi, siciliani e poi jugoslavi.
Dalla fine dell’Ottocento era iniziata un’ondata migratoria italiana diretta soprattutto verso la Svizzera tedesca: 10’000 italiani nel 1860, 202’809 nel 1910. Nel nostro Cantone gli immigrati italiani registrati nel 1850 erano il 6.6% e passarono al 28.2% del 1910. Negli Anni Sessanta e Settanta, in concomitanza con lo sviluppo industriale e le grandi opere delle strade nazionali, gli stranieri residenti in Ticino raddoppiarono quasi nel giro di un decennio.
Questi dati celano la vita dei migranti, che raggiunsero il nostro territorio per contribuire allo sviluppo della nostra economia e della nostra società. La costruzione di dighe e gallerie di adduzione per le centrali idroelettriche; la costruzione della ferrovia del San Gottardo nell’Ottocento, delle strade e delle autostrade del Novecento; l’espansione dell’industria pesante e manifatturiera. Un contributo essenziale, anzi vitale, alla loro realizzazione arrivò da operai migranti che giunsero nel nostro Cantone nel corso dell’ultimo secolo.
La sfida di oggi sta nel valorizzare questa storia, che tocca tutti noi, nel poterne trarre i giusti insegnamenti e le indicazioni per affrontare le problematiche legate alla globalizzazione. Una globalizzazione che ha annullato certi sviluppi e dato avvio ad altri, in cui la manodopera indigena è in concorrenza con quella frontaliera e migrante. Ma sappiamo che la Storia è fatta di flussi e riflussi, che trovano in particolare nella mia esperienza personale momenti di ricordi piacevoli legati allo sviluppo e alla vitalità di una valle che negli anni Settanta e Ottanta era quasi “il centro del mondo”.
Un centro del mondo che era frutto di quello sviluppo che portò dei piccoli villaggi di montagna e di periferia, ad essere dei vitali centri produttivi e industriali. Come ebbi occasione lo scorso anno di sottolineare, le esperienze vissute in questo microcosmo difficilmente si sono vissute altrove nel nostro Cantone. La presenza di persone straniere rappresentavano il 40% degli occupati nel 1970 e ancora il 32% nel 2000. Questo in una comunità che conta oggi poco più di mille persone e un settore primario pari a 10 volte il dato percentuale cantonale. La giornata odierna permette di riflettere su questi aspetti, e sulla valorizzazione del migrante quale figura professionale e sull’importanza del mondo del lavoro quale strumento di integrazione. Ringrazio il Delegato cantonale all’integrazione degli stranieri e i suoi collaboratori, unitamente alla Commissione cantonale per l’integrazione degli stranieri, per aver promosso questo incontro informativo che raccoglie numerosi relatori di valore, il cui contributo permetterà di meglio inquadrare questi aspetti appena abbozzati nel mio intervento d’apertura.
Il nostro Cantone è passato in poco più di 150 anni dalla “vita grama” a terra capace di offrire lavoro ai propri residenti e a diverse migliaia di lavoratori frontalieri, questo senza negare qualche problema di relazione tra le parti. Una relazione che oggi si vede confrontata anche con la crisi economica e con una sempre maggiore difficoltà nell’accesso al mondo del lavoro, sia per i migranti, sia anche per i residenti. Un’effettiva integrazione socio-economica ha come motore sicuramente una buona formazione scolastica, l’apprendimento della lingua locale ma anche un impiego professionale. Il lavoro è innegabilmente un luogo privilegiato di integrazione dove interagire, conoscersi e confrontarsi. In tempi di crisi come quelli odierni, è evidente che questo fattore integrante possa essere meno presente, ragion per cui a volte l’integrazione risulta un po’ più difficile.
Non va però negata la grande capacità del nostro Paese, il Ticino e la Svizzera, nell’aver saputo accogliere migliaia di migranti che hanno contribuito allo sviluppo della nostra economia. Un rapporto talvolta difficile tra indigeni e migranti, ma che come Ticinesi abbiamo vissuto anche solo passando il San Gottardo e confrontandoci con la realtà tedescofona maggioritaria. Escludo quindi l’ipotesi che il nostro Paese non sia in grado di accogliere e riconoscere i meriti, semplicemente tendiamo a difendere la nostra comunità da elementi che potrebbero destabilizzarla.
E, per concludere ancora con Plinio Martini, dobbiamo pur comprendere che siamo i figli della nostra comunità e il nostro essere è stato forgiato da “quello che è capitato ai nostri vecchi, quello che loro hanno patito a spostarsi da un continente all’altro. Dicono che i nostri contadini sono avari taccagni litigiosi, e lo concedo: ma quando pensi che potevano fermarsi qui soltanto quelli che possedevano, allora puoi perdonare alla nostra gente anche questi difetti”. (Martini)
Vi ringrazio.
Incontro informativo sull’integrazione degli stranieri “Lavoro e integrazione, come valorizzare le potenzialità professionali e formative dei migranti”
04 ottobre 2012, Bellinzona – Auditorium Banca Stato, ore 13.30
Intervento di Norman Gobbi, direttore del Dipartimento delle istituzioni