Speciale A tu per tu con Norman Gobbi Il direttore del Dipartimento delle istituzioni dopo la sua entrata ‘fracassante’ in governo: ‘Anche i miei collaboratori mi chiamano packer’. Ma poi si commuove parlando della figlia Gaia. Il desiderio: entro fine legislatura sistemare la logistica della Polizia cantonale: ‘Ho visto situazioni da Terzo Mondo’
di Sabrina Melchionda
Il rumore di due cantieri, quattro piani più sotto, giunge attutito. « Il direttore arriva subito », ci informa una collaboratrice dopo averci fatto accomodare in una sala piuttosto spoglia in fondo al corridoio. Sono da poco passate le dieci quando Norman Gobbi, direttore del Dipartimento istituzioni, entra. Completo scuro e cravatta a righe oblique rosse e beige, saluta con una vigorosa stretta di mano chiamandoci per nome poi, su indicazione del fotografo, si siede dando la schiena alla vetrata da dove entra un forte sole che fa ancora tanto estate. «Così mi fa sudare…» , dice con un placido sorriso prima di aprire una finestra. Attende la prima domanda guardando diretto negli occhi. Uno sguardo che terrà per tutta l’intervista.
Il suo è stato un avvio col botto. Due esempi: alcune dichiarazioni su progetti aggregativi o al putiferio sulla Commissione integrazione. Un peccato, diciamo, di gioventù?
«Vengo definito un packer , anche dai miei collaboratori diretti e dai capi divisione. Perché voglio che le cose vadano avanti, se non lo fanno voglio che siano risolte. Non ho mai criticato quanto fatto da Luigi Pedrazzini: ha condotto diverse battaglie che ho condiviso quando ero in Gran Consiglio. Poi, ovviamente, ognuno ha la sua visione. Io vorrò dare una mia impronta sui temi che mi stanno a cuore e in generale sul modo di condurre il dipartimento».
La Lega ha ridotto la politica a una sorta di Bar Sport. In vent’anni sulla scena il movimento cui appartiene ha smontato ruolo e regole istituzionali?
«Ha riportato la politica tra la gente, permettendole di sapere le cose. Quando è nata la Lega avevo 14 anni, la prima volta che ho votato è nel 1995: allora la politica era molto distante dalla gente e i politici persone considerate oltre le loro capacità».
Sopravvalutate?
«Per certi versi. Ci sono aneddoti come quello di deputati che, negli anni Ottanta, in una sessione di Gran Consiglio consumavano una bottiglia di whisky alla buvette. Fuori da lì non si è mai saputo ma se succedesse oggi la gente ne verrebbe a conoscenza e ne trarrebbe le conseguenze. Queste persone sono quelle che oggi sono esaltate da taluni partiti come grandi illuminati. In questo senso si sono fatti passi avanti».
Intende che i leghisti stanno, come dire, alla larga da Bacco?
«No, no, nooo. Non in questo senso. La politica in questi ultimi vent’anni è stata resa più trasparente. Lo ritengo importante».
Da presidente del Gran Consiglio ha dato grande valenza alle regole, non s’è fatto problemi a rimettere nei ranghi anche i suoi.
«Gestire un parlamento in cui ognuno dei novanta deputati vuole parlare un minuto più degli altri è complesso e il ruolo del presidente è quello di ottimizzare i lavori parlamentari. In un Esecutivo penso invece che la libertà di manovra sia opportuna. Il nostro ruolo non è solo dirigere un dipartimento: come consiglieri di Stato siamo politici. Ciò non deve scontrarsi con l’interesse del governo e del Paese».
Tornando alla trasparenza: è davvero convinto che un ministro possa dire tutto ciò che pensa e che discute in governo, sempre? Non esistono segreti per il bene del Paese?
«Va sempre valutato l’interesse superiore dello Stato. Essere trasparenti non significa mettere tutto in piazza. Ciò che intendo è che vanno dette le cose come stanno».
In un’intervista rilasciata a un quotidiano romando dopo la sua elezione in governo aveva dichiarato che chi siede in un esecutivo rischia di diventare troppo istituzionale. Ma essere istituzionali è un rischio?
Inspira a fondo. «È la discussione che abbiamo avuto in Consiglio di Stato quando abbiamo preso la decisione del blocco dei ristorni sui frontalieri».
Vale a dire?
«Quando uno entra in un governo non deve togliersi la propria anima, le idee, il carattere. Deve rispettare delle regole: è questo che intendo con essere istituzionale. In questo senso il governo ti imbriglia ancora più del parlamento. Io cerco di farmi un po’ di spazio per avere quella libertà di manovra che un politico deve avere, al di là dell’istituzione e del formalismo».
In un’altra intervista, questa rilasciata prima del 10 aprile, aveva detto che la Lega era pronta ad assumere il ruolo di forza di maggioranza. Però non avevate iniziato benissimo, schivando in tutti i modi il Dipartimento finanze ed economia.
«Il Dfe è stato messo sul tavolo anche – sorride mentre cerca le parole adatte – au fur et à mesure di una posizione di Giuliano Bignasca. Io ho sempre detto che il dipartimento cui miravo fosse quello che per finire ho avuto, perciò non credo di avere disatteso i motivi per i quali credo di essere stato votato. Assumermi una patata bollente come poteva essere il Dfe, viste anche le numerose partenze degli ultimi mesi, forse in quel momento non era opportuno. Mi farò, spero, quattro anni di esperienza nel Di e poi, se i cittadini vorranno rimettermi in gioco, potrei magari pensare ad assumere un altro dipartimento».
D’accordo, lei era alla prima elezione. Non ha cercato di convincere il suo collega Marco Borradori, lui alla sua quinta legislatura?
Sorride. «Borradori avrebbe voluto cambiare ma non in quel senso. Restando al Territorio ha privilegiato la stabilità. E poi forse Laura Sadis, dopo la prima legislatura, ha l’opportunità di portare avanti taluni dossier. A un certo punto bisogna trovare un equilibrio all’interno di un collegio dove, oltretutto, ognuno deve trovarsi bene nella “casa” che gli è attribuita. Alla fine oggi penso che sia così, e questo è buono».
È vero, lei ha sempre indicato il Di quale dipartimento più nelle sue corde. E, appunto, non se la sentiva di assumere il Dfe. Quando in governo discutete, chessò, di preventivi o consuntivi, lei esce dalla sala?
«No, anzi. La mia attenzione è a trecentosessanta gradi. Osservo gli altri dipartimenti, in particolar modo il Dfe per la sua valenza su più livelli: alcune scelte e proposte di quel dipartimento hanno conseguenze su tutti gli altri. E, in ogni caso, non è che uno diventa un Fachidiot ! Come ministri bisogna essere a trecentosessanta gradi, così come lo devono essere i deputati».
Il problema dei frontalieri sono le 55 mila persone che vengono in Ticino a lavorare o le aziende che le assumono?
«Entrambe le cose. Alle nostre aziende non riusciamo a porre delle regole. Nelle vesti di direttore del Di ho fatto le mie verifiche, fino all’ultimo dettaglio: c’è poca possibilità di intervenire perché tutto è vincolato dagli accordi bilaterali».
Questo però si sapeva!
«Però ho voluto verificarlo perché in altri Cantoni prendono altre misure e stiamo cercando di capire se sono adottabili anche da noi. Quel che già possiamo fare è sensibilizzare ulteriormente le nostre aziende sulle assunzioni. Inoltre, penso alle ultime proposte del Dfe, occorrerà fare in modo che delle misure beneficino ditte che impiegano un buon numero di ticinesi. Aiutando invece aziende con la maggioranza di lavoratori frontalieri non si fa il bene del mercato del lavoro interno: chi resta senza lavoro sono di norma ticinesi o stranieri residenti in Ticino».
A suo dire se non ci fosse un numero così elevato di frontalieri i salari sarebbero più alti. L’economia ticinese reggerebbe?
«Quella che si fonda sul consumo interno sì, e penso anche sul turismo. I frontalieri sono molto presenti nell’economia di esportazione; poi da lì, in particolare con i bilaterali, la loro assunzione s’è allargata in altri settori come il terziario dove si possono pagare salari, diciamo così, ticinesi o svizzeri; ma qualcuno vuole guadagnarci. Qui dev’esserci maggiore consapevolezza dei datori di lavoro in primis nel dare lavoro ai ticinesi: così si salvaguarda il consumo interno e si manterrebbe il know-how sul territorio».
La sicurezza è davvero un problema in Ticino?
«È percepito come tale».
I politici ci mettono del loro nel creare questa percezione?
«Purtroppo i casi sono diventati più mediatizzati, ma anche più violenti. Questa, va detto, è una tendenza che si riscontra in tutta la Svizzera. Cioè: in Svizzera sono aumentati i reati mentre in Ticino il numero è stabile. È però cambiata la loro tipologia».
Io ero una ragazzina, lei un bambino, ma si ricorderà degli anni Ottanta, quello delle rapine. Allora sì, che era emergenza.
«Sì, ma ai tempi non si toccavano le persone. I furti nelle case erano molti meno…».
Mi scusi, ma le rapine, in particolare ai distributori di benzina, non di rado sono finite nel sangue.
«È vero. Però oggi la percezione di insicurezza è aumentata. C’è sul posto di lavoro, sui mezzi di trasporto, a muoversi di notte. I cittadini, come i granconsiglieri, chiedono di aumentare la presenza della Polizia sul territorio. Il precedente governo lo ha già fatto, ora stiamo valutando se è necessario potenziare ulteriormente gli effettivi».
Lei parla di percezione di insicurezza. Ma la criminalità – fenomeno usato come spauracchio da non pochi politici, non da ultimo in campagna elettorale – è ancora un gradino in più.
«La criminalità c’è. Lo abbiamo visto ancora di recente, ed è incontrollata lungo la frontiera. Una volta il topo d’appartamento da Lugano andava a Massagno, o da Massagno a Paradiso. La maggiore mobilità, anche data dall’urbanizzazione del nostro territorio, ha permesso al crimine di diventare a sua volta più mobile. Il fatto che ci siano bande organizzate che entrano, colpiscono e tornano subito in Italia è la prova che non siamo esenti da ciò che succede a sud di Chiasso o a ovest di Locarno. Siamo confrontati con un sistema molto più dinamico e aperto rispetto a un tempo, che allo Stato richiede una maggiore presenza sul territorio per stringere le maglie e poter prendere i pesci».
Lei ha paura a uscire di casa dopo le 22?
«Io no, anche perché – ride – sono un metro e ottanta per centoventi chili, quindi…».
Allora diciamo così: quando io finisco tardi di lavorare mi consiglia di farmi scortare all’automobile da un collega uomo, meglio se corpulento?
«Nooo, questo no. Però in taluni quartieri del nostro Cantone forse sì».
Non a Bellinzona?
«No, a Bellinzona per fortuna no».
Quale priorità le piacerebbe portare a termine entro la legislatura?
«Ce ne sono tante. Una è la logistica della Polizia cantonale. All’inizio del mio mandato ho visitato tutte le strutture del dipartimento. Mi sono accorto che molte sono fatiscenti e quindi poco motivanti per i collaboratori: certi spogliatoi degli agenti messi peggio di alcune immagini che arrivano dal Terzo Mondo; strutture con buchi rappezzati ma mai sistemati negli ultimi sei anni; spazio insufficiente affinché tutti possano lavorare al computer ed evadere pratiche amministrative… Forse abbiamo risparmiato troppo in questi settori e dobbiamo recuperare».
‘Il ticinese è cambiato molto negli ultimi anni Deve ritrovare le radici per ritrovare sicurezza’
Un ministro giovane tra ‘Star Wars’ e faccende di casa
Avrebbe mai immaginato di essere consigliere di Stato a 34 anni?
«No».
Perché?
«Forse perché – sorride, guarda un punto immaginario sul tavolo e prende un gran respiro – non pensavo che le cose mi andassero così bene nella mia carriera politica».
Si sente più arrivato o più sotto pressione?
«Sotto pressione – ammette con una candida risata –. Tendo sempre ad andare avanti cercando di migliorare; ma ovviamente la mia giovane età non mi permette di sapere tutto in maniera approfondita come chi ha più anni di me; anche se con le molte esperienze fatte (in politica, come militare, in associazioni o federazioni) mi sono costruito una personalità su più aspetti. Le critiche? Le leggo in maniera positiva: permettono di correggere mancanze o certi atteggiamenti».
Cosa significa bruciare le tappe in questa maniera?
«Non penso di avere bruciato le tappe. Ho iniziato molto presto e di conseguenza sono arrivato molto presto in governo».
Nella biografia sul suo sito Internet specifica di essere nato nell’anno della prima diffusione di “Star Wars”. Si immedesima in uno dei personaggi?
Ride di gusto ma si fa subito serio. «Guardavo i film già da bambino, mi piacevano molto. Al di là della fantascienza fanno trasparire aspetti importanti. Come il potere, il lato oscuro della forza: chi si avvicina alle cose pubbliche deve tenerne conto e mantenere ben presente cos’è il bene. Questi film mostrano come quando ci si avvicina a certe posizioni la nostra passione possa essere deviata da singole delusioni che poi deviano sul lato oscuro».
Ora le dico alcune parole, le chiedo di dirmi, d’istinto, a cosa la fanno pensare. A tutte risponderà senza esitazione.
La prima è: compromesso.
«Se necessario».
Dialogo.
«Opportuno» . Sorriso.
Potere.
«Logora». Risata.
Amore.
«Sempre». Tono addolcito e un lieve rossore.
Amore per la Patria.
«Beh, superiore».
L’ultima parola: ticinese.
«Chi è? No, scherzo!».
Me lo dica lei.
«Il ticinese è cambiato molto negli ultimi anni. Il nostro Cantone è molto mobile; bisogna dunque capire dove ognuno ha le proprie radici. Con la globalizzazione questo aspetto sta diventando una necessità dell’essere umano, in Ticino come in Europa. Trovare le radici significa trovare sicurezza».
È un bene o un male che il ticinese sia cambiato molto?
«Ci sono aspetti positivi e negativi. Tra i primi: essere meno legato al proprio paese (lo penso in ottica di aggregazioni). D’altra parte il ticinese si muove poco anche all’interno del Cantone. Qui mi aggancio a uno dei miei obiettivi: riportare alcuni uffici cantonali del mio dipartimento nelle zone periferiche. Ho visto molte reazioni negative da taluni funzionari. Ciò mi preoccupa un po’: se si è disposti a fare mezzora di coda a Lugano ma non un quarto d’ora in più di strada per andare a Faido, significa che si sta perdendo un po’ il valore del tempo».
Quello dell’essere svizzeri o, nel nostro caso, ticinesi è anche un argomento ghiotto per partiti e movimenti. Ma chi è il vero ticinese, ad esempio come lo intende la Lega? Me ne elenca alcune caratteristiche?
«Ho scoperto che il ticinese della Lega è molto variegato – sorride – . Essendo un movimento è difficile fare un quadro nel quale ognuno rientra. C’è chi è più legato al dialetto, chi non è nato ticinese o svizzero. Ho scoperto, ad esempio, stranieri che per certi versi sono più ticinesi dei ticinesi. Penso che il ticinese sia una persona che ogni tanto non si rende conto in quale magnifico Paese viviamo e cerca sempre qualcosa di meglio all’esterno. In realtà il nostro Cantone è uno dei posti più belli dove vivere, lavorare e anche far crescere la propria famiglia».
Che papà è Norman Gobbi?
Abbozza un sorriso e, di colpo, lo sguardo s’addolcisce. «Purtroppo molto assente ma cerco di recuperare nei weekend. Domenica, ad esempio, sono restato a casa tutto il giorno con la mia bambina e ho dato una mano a mia moglie nei lavori domestici. Non si vive di sola politica, la famiglia deve rimanere un punto d’appoggio».
Ha paura per il futuro di sua figlia?
«No. Però non vorrei che dovesse lasciare il Ticino perché l’evoluzione dei salari è stata tale da non più garantire una qualità di vita abbastanza alta».
La chiamano packer, diceva. Cosa la intenerisce?
«Gli occhi di mia figlia, sicuramente». Cinque parole con cui si scioglie, appoggiandosi allo schienale della sedia.
Cosa apprezza in una donna?
«La capacità di comprendere il marito». Ride di gusto. «In particolare di mia moglie apprezzo l’aver sacrificato il lavoro per occuparsi di nostra figlia. Delle donne in generale ammiro la determinazione».
Quando ha pianto l’ultima volta?
«L’ultima volta che ho pianto…» , ci pensa.
Si piange anche di gioia…
Gli si allarga in viso un grande sorriso. «Per l’elezione no, erano altri sentimenti. Ho pianto al mio ultimo compleanno: mia moglie mi ha fatto un bigliettino con la firma di mia figlia…».
S’interrompe, la voce rotta dall’emozione. «M’à vegn ammò ul magon adèss».